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Articolo 18: due piccioni con una fava

Da Leragazze

Articolo 18: due piccioni con una fava

Si fa un gran parlare in questi giorni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: la Marcegaglia che si eccita alla sola idea della sua abolizione, la Camusso che si incontra segretamente con il presidente del Consiglio…  Insomma si è capito che l’intenzione del governo è ribaltare il sistema del lavoro e probabilmente ci riusciranno anche. E’ vero che forse fino a ora abbiamo fornito ai lavoratori una tutela eccessiva che ha portato molte aziende all’immobilismo. Ed è altrettanto vero che il mondo del lavoro è pieno di inetti fancazzisti, a volte ben pagati, che potrebbero essere giustamente rimpiazzati da lavoratori bravi e volenterosi . Ma non credo (dal basso della mia inesperienza) che per fare una riforma del lavoro sia necessario metter mano all’articolo 18.

Veniamo al merito. Intanto chiariamo che l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge n. 300/1970) non parla, come comunemente si afferma, di “licenziabilità del dipendente per giusta causa o giustificato motivo”. Questo lo fa un’altra legge, la 604/1966 che all’art. 1 recita:

“Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo.”

Una disposizione sacrosanta: se un datore di lavoro vuole licenziare dei dipendenti, deve avere un motivo giusto. Che siano problemi economici dell’azienda o inettitudine del lavoratore, comunque un motivo (e giusto!) deve esserci. Altrimenti il licenziamento sarebbe arbitrario e in alcuni casi anche discriminatorio.

E infatti la legge in discussione non è questa. Parlano di abrogare soltanto l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori; quindi il principio del licenziamento solo per giusta causa o giustificato motivo non sembra messo in discussione. Almeno apparentemente. Ma se a volte l’apparenza inganna, questa è una di quelle volte.

Già, inganna, perché l’articolo 18 in effetti disciplina apparentemente solo la reintegrazione nel posto di lavoro.

Tale articolo dispone infatti che qualora il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento (in quanto avvenuto senza giusta causa o giustificato motivo ai sensi della sopracitata legge) può ordinare che il lavoratore sia reintegrato nel posto di lavoro. Il testo completo potete leggerlo qui.

E’ chiaro però che queste due disposizioni sono ben legate tra loro e che abrogandone una, si esautora anche l’altra: perderebbe senso vietare il licenziamento ingiusto se a fronte dell’accertamento da parte del giudice non ci fosse la possibilità di riparare con il ripristino dello status quo ante, vale a dire con la reintegrazione nel posto di lavoro. Abolire l’articolo 18 quindi significa svuotare di efficacia anche l’art. 1 della legge 604/66 e quindi di fatto significa consentire il licenziamento selvaggio.

Mi spiego meglio:  abolendo l’articolo 18 rimarrebbe comunque in essere il divieto di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo. Peccato però che sarebbe inutile per i lavoratori licenziati illegittimamente far causa al proprio datore di lavoro; perché il giudice, una volta dichiarata l’illegittimità di tale licenziamento avrebbe le mani legate e non avrebbe più gli strumenti per condannare il datore di lavoro alla reintegrazione. Al massimo solo a un indennizzo economico.

Quindi il governo (e la confindustria!) prenderebbero così  due piccioni con una fava. Abolendo l’articolo 18 abolirebbero di fatto anche l’art. 1 della L 604/1966.

E se è vero, come sbandierano i favorevoli, che l’articolo 18 non deve essere considerato un tabù, è vero anche che non può essere  nemmeno ambito come fosse un trofeo.



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