Si dice che per andare in India ci voglia una certa maturità. Sicuramente bisogna essere pronti a mettere in discussione tutte le idee e le immagini che abbiamo su questo Paese.
Uno spot pubblicitario, che passa silenzioso sugli schermi della metropolitana, promuove voli per Nuova Delhi. Sullo sfondo una sola, incantevole immagine, il Taj Mahal. Tour operator e agenzie di viaggi mostrano tante immagini dell’India: tutte esotiche, ricche di colori e atmosfere coinvolgenti. Film, documentari, reportage e romanzi la raccontano come un paese povero ma mistico e trascendente. Siddharta di Hermann Hesse ne esalta la spiritualità: un mondo che, citando Giorgio Manganelli – scrittore che nel 1975 viaggiò in India, dopo aver “viaggiato”, anche, in Siddharta – sembra fatto tutto “di Maestri e di Discepoli, di Esperienze e di Illuminazioni”. Nel suo Esperimento con l’India, però, Manganelli stesso afferma: “Sarà così, l’India? A leggere il libro di Hesse ci si scorda che esistono gli escrementi.” E con questa frase, grottesca ma efficace, riassume tutta la serie di convulse emozioni che un viaggiatore può avere al suo primo impatto con questa immensa Repubblica.
L’India, infatti, non è un mondo misticamente esotico, ma una realtà che colpisce subito duro: non dà il tempo di abituarsi, mostra tutta la sua carica emozionale e tutti i suoi contrasti al primo approccio, già dopo i primi passi sulla strada, tra gli odori sgradevoli e i profumi, tra i colori dei sari e la miseria che ti chiede una rupia ad ogni passo. I primi minuti sono come un pugno nello stomaco che lascia senza fiato. Così, capisci subito che è banale andare alla ricerca del mistico, delle spezie e delle sete pregiate. Capisci che non c’è nulla di esotico, se per esotico si intende un diverso sognato e bellissimo. Capisci che la ricerca del proprio “Io” attraverso la meditazione e la preghiera sono un’idea amplificata in Occidente e che la religione indiana è fatta di riti meccanici da ripetere costantemente uguali.
La spiritualità sta nella bontà di un popolo pieno di ricchezza interiore, di rispetto e di orgoglio. E questa spiritualità è una cosa molto pratica: un modo di pensare e vivere insito nelle menti e nella cultura. È dato come il sorgere del sole ma anche come i rifiuti lungo ogni strada, le fogne a cielo aperto e la precarietà della vita.
Molto pratica è anche la fame. Non lascia spazi ai sentimentalismi o alla tenerezza. Così una dolcezza verso un cagnolino, che con lo sguardo chiede un biscotto, diviene un banale spreco; a nulla serve cercare di rimediare alla brutta figura conservando il bicchiere di plastica e la cartaccia fino al prossimo cestino.
Poco pratici, anzi a volte completamente dissociati dalla realtà, siamo invece noi occidentali in India. A Pushkar, una città alle soglie del deserto del Rajasthan, si rimane impressionati nello scoprire quanti siano gli europei e i nordamericani che vi sono arrivati negli anni Sessanta e Settanta. Sembra che non si siano ancora resi conto di come quelle immagini che tanto li hanno affascinati siano state create dallo stesso mondo occidentale, per suo uso e consumo. Ma in questa folla di hippie nostalgici e di nuovi turisti-viaggiatori, acquirenti di più o meno originali collanine, bracciali, incensi e pashmine o incalliti cercatori di bhang, si possono incontrare anche gli indiani veri.
Uno di questi è Deepak, un adolescente che gira le strade dalla città vendendo cavigliere ai passanti. Parla l’inglese ma non sa scriverlo. Scorrendo la rubrica del cellulare, mostra orgoglioso il nome di tutti i suoi amici stranieri. Non va a scuola: in India la percentuale di alfabetizzazione è molto bassa. L’insegnamento primario è garantito per tutti, ma la percentuale di quelli che abbandonano la scuola in tenera età per lavorare e aiutare a sostentare la famiglia è elevatissima.
Nella sua frase di approccio, “I’m not Bramin“, come dire, tranquilli non vi porterò nel tempio per un’offerta in euro, dimostra quanto, nonostante legalmente abolite, le gerarchie sociali siano ancora radicate nella coscienza e nella cultura delle persone. Poi esprime tutta la sua maturità quando mostra la sua collezione di monete straniere: ci sono tanti coni diversi, moltissimi di rame, spiccioli, centesimi. Ma anche molti pezzi da uno o due euro, sterline e frazioni di dollaro. Approssimativamente potrebbero essere trenta o quaranta euro: sufficienti per nutrire a una famiglia numerosa per diverse settimane. Se gli si chiede come mai non investa questa piccola ricchezza, spiega con innocenza e semplicità che quelle monete per lui hanno un valore culturale e affettivo e che “i soldi vanno e vengono, l’importante è lavorare onestamente, non arricchirsi”. Un incontro del genere fornisce una possibile chiave di lettura in un mondo tanto complesso.
Solo così si può proseguire, continuando ad “assaggiare” l’India, con gli occhi illuminati dai colori degli abiti che, anche se luridi, non smettono mai di brillare e nelle orecchie i rumori dei clacson e il caos del traffico delle città; con lo smog e l’umidità che continuano ad attaccarsi alla pelle e le narici assediate da profumi di spezie e incensi misti al fritto, ai rifiuti e alla putrefazione che si alternano ad ogni passo.