“Boom di astensioni”, “affluenza in calo”, “vota la metà degli aventi diritto”.
Sono questi alcuni dei commenti che hanno accompagnato i titoli d’apertura dedicati alle recenti elezioni amministrative che hanno avuto luogo in alcune importanti città, tra cui Roma.
Eppure una domanda sorge spontanea: come fanno a presentare come “democratica” una votazione ignorata dalla metà degli elettori?
Non tanto agli occhi del sottoscritto, che ha chiaro che cos’è la “democrazia”, bensì a chi crede che “democrazia” faccia il pari con “partecipazione”, “pluralismo”, “consenso”.
La cosa che infastidisce di più, non è tanto il fatto che procedano imperterriti per la loro strada come nulla fosse, incuranti del malcontento e della disaffezione montanti (peraltro indotte e canalizzate), ma che se ne infischino smaccatamente della patente contraddizione tra le loro parole d’ordine, le loro dichiarazioni di principio e la prassi quale viene instaurata attraverso tutta una serie di artifici e stati d’animo diffusi: dalla “legge elettorale” (dai nomi sempre più ridicoli, come il “porcellum”) alle regole per la presentazione delle liste, passando per l’odio diffuso verso “la casta”, e finendo con l’oscuramento mediatico di alcuni candidati scomodi (come l’avv. Marra a Roma) e quelle “norme” che vietano la proposizione, in campagna elettorale, di temi particolarmente sentiti dalla famosa “gente”, che poi è quella che rimpolpa i ranghi del cosiddetto “corpo elettorale”.
Ma di che cosa c’è da preoccuparsi se nel “faro della democrazia”, gli Stati Uniti d’America, a votare va sì e no (più no che sì) la metà della popolazione, col perenne ‘vincitore’ che è praticamente il “partito degli astenuti”?
Ciò non turba affatto i benpensanti, le vestali del sacro fuoco democratico e i loro lacchè messi a fabbricare “l’opinione pubblica”. Quella è la “vera democrazia”, quindi bisogna senz’altro adeguarsi, ci piaccia o no.
Eppure, se si guarda appena sotto la scorza dei lustrini, delle paillettes e dei palloncini colorati che addobbano i comizi, pardon le “convention” di questo o quel candidato a stelle e strisce, ci si accorge che nel paese che dà “lezioni di democrazia” a destra e a manca col mitra spianato non vi sono né “partecipazione” (se non quella di “comitati elettorali” messi su alla bisogna), né “pluralismo” (ci sono sempre i soliti due carrozzoni del “bipolarismo”), né “consenso”.
A questo punto uno potrebbe sorvolare sui primi due punti, considerando che ovunque ed in ogni epoca la massa s’è sempre mantenuta ai margini dell’organizzazione della vita politica (il che non è del tutto vero: si pensi ai cosiddetti “totalitarismi” e alla loro “mobilitazione” permanente), se non addirittura nel completo disinteresse (cosa, come abbiamo scritto più volte, più sana dell’illusione di “capire” di politica); e che in fondo tutti i “regimi” (uso il termine nella sua accezione tecnica) non hanno mai permesso che determinate posizioni potessero prendere la forma d’una opposizione troppo pericolosa per la loro stessa stabilità.
Ma che dire al riguardo del “consenso”? La questione è piuttosto delicata perché rivelatrice della natura intrinsecamente elitaria, e perciò truffaldina (rispetto alle parole d’ordine), della “democrazia”. È risaputo infatti che i cosiddetti “regimi” (e qui uso il termine nella sua accezione negativa) hanno riscosso un consenso davvero di massa. E non solo perché veniva carpito con una propaganda capillare (alla quale quella delle “democrazie” non ha nulla da invidiare, essendo stata enormemente perfezionata), ma perché, in fin dei conti, il proverbiale “uomo della strada” vedeva realizzato e soddisfatto quello che per lui, attento più che altro alle esigenze e alle fatiche della vita quotidiana, era decisamente più importante rispetto alle fanfaronate sui “diritti” che mandano in visibilio i “democratici”.
La democrazia, dunque, se snobba la “partecipazione” ed il “pluralismo” inscenandone delle versioni per essa innocue, prescinde completamente dal “consenso” di massa. Da una parte, infatti, non può riscuoterlo, perché trattandosi del governo dei partiti per conto di potentati finanziari preoccupati di spillare il sangue dalle vene dei sudditi attraverso l’usura, il sistema che prende corpo con essa non suscita alcun entusiasmo. Entusiasmo che, anzi, viene visto con sospetto, come un atteggiamento da “esaltati”, la “democrazia” essendo in un certo senso il sistema in cui si trovano a loro agio i “moderati” (qui da intendersi non come l’opposto degli “estremisti”, ma quella gente scialba, sfuggente e senza personalità che pullula nelle “democrazie” e fa vanto della sua “mediocrità”, pretendendola da tutti quanti). Dall’altra parte, la stessa “democrazia” è però costretta a ricercare un certo consenso, ma lo fa tra quelle fasce della popolazione più abbienti, sistemate e comunque arrivate e soddisfatte dell’andazzo immorale, volgare e corrotto. Che sono le stesse che poi vanno a votare o “zuppa” o “pan bagnato”.
Tutti gli altri, tapini, non hanno più scelta, e dopo un po’ di messinscena arriva, tra una “riforma” e l’altra, il momento in cui di andare a votare non sentono affatto il bisogno, tanto viene percepito come inutile.
Col che si capisce anche perché quando la “democrazia” prende sempre più piede si arriva all’abolizione del “finanziamento pubblico dei partiti”. Prima si fa venire la bava alla bocca alla gente, facendogli credere che “è tutta colpa dei politici”. Invece, sembrerà strano a dirsi, se c’era un barlume di garanzia di veder rappresentato, pur all’interno della più generale truffa, anche qualche interesse non in perfetta sintonia con quelli dei suddetti potentati finanziari, ciò era proprio dato dall’esistenza del “finanziamento pubblico dei partiti”, che tra l’altro, facendo due rapidi conti, non grava chissà quale cifra sulle casse dello Stato.
Così, una volta sparita anche la possibilità per un piccolo movimento di poter condurre qualche utile battaglia politica, con la speranza di vederlo magari assurgere a posizioni di comando (più teorica che pratica in una nazione occupata da oltre cento basi ed installazioni militari straniere), resta solo la valanga di denari versati nella casse dei due carrozzoni-fotocopia da tutti quelli che hanno una qualche convenienza nel farsi elargire qualche “favore”.
Il “lobbismo”, dunque, da spregevole mercimonio nel quale i politici fanno gara nel vendersi al miglior offerente, diventa, per gli aedi del ‘verbo democratico’, una questione di “trasparenza” e di “modernità”, da esibire quale patente di compiuta e matura “democrazia”, come insegna la madrepatria ideale di tutti costoro, l’America.
Disaffezione per le elezioni e la politica in genere ed abolizione del contributo dello Stato per i partiti convergono alla fine verso un unico obiettivo, che è la realizzazione di una “vera democrazia”.
Peccato che essa non abbia molto a che vedere con quel che la gran parte della gente immagina al riguardo
Enrico Galoppini, European Phoenix