Sempre più spesso ci ritroviamo a parlare di videogiochi che vengono categorizzati e marchiati attraverso tre semplici espressioni ormai invalse nella prassi: sandbox, open world e indie. Certo, molti poi appaiono nei risultati delle ricerche anche sotto le cosiddette categorie “tradizionali”, così da esser maggiormente riconoscibili ed attraenti ai più. Ad ogni modo, l’improvviso espandersi delle tre categorie poc’anzi dette, si deve al geniale lavoro di un certo Notch che, nel 2009, fece scoppiare il caso Minecraft, il quale in breve tempo generò innumerevoli “figli” e conobbe al contempo una pletora di versioni diverse per i più disparati hardware. I videogiocatori rimasero assolutamente rapiti dalle possibilità offerte dal gameplay di Minecraft. Non staremo a spiegare le ragioni del successo di una formula così semplice ma allo stesso tempo “addictive” e, soprattutto, non ci perderemo in sterili voli pindarici sulla bipartizione dei videogiocatori nelle due macro categorie, dei “viziati” (in senso buono ovviamente, ossia gli appassionati di aiuti, linearità e cut scene cinematografiche) e degli “avventurieri indipendenti”. Parliamo invece di Asteria, un prodotto indirizzato proprio a quest’ultimi e prima fatica del giovane Legend Studio ad approdare su Steam. Vediamo come se l’è cavata il team di sviluppo nel tentativo di emulare, cercando di offrire qualcosa di nuovo, prodotti di ben altro blasone.
Volendo procedere per sommi capi, potremmo operare una prima, superficiale, definizione di Asteria. Il prodotto di Legend Studio si adagia completamente su una derivazione bidimensionale della formula resa celebre dall’idolatrato Minecraft. Una derivazione che, come molti di voi già sapranno, ha portato agli onori della cronaca un’altra produzione indipendente fino ad oggi imbattuta. Il videogioco in questione si chiamava Terraria e sostanzialmente riproponeva quanto fatto da Notch, con i gloriosi 16-bit, togliendogli una dimensione e donandogli un’anima da side scrolling platform. Un Minecraft 2D fantasy che allo stato attuale può contare non solo su una nutritissima comunità di “Terrarians” ma anche su costanti, enormi, update totalmente gratuiti, in barba alla deplorevole politica dei DLC a pagamento. Asteria tenta di seguire, a suo modo, il sentiero di mattoni gialli posato da questa stupenda opera dell’ingegno, sradicandone la formula – di cui vi parleremo a breve – e tentando di adattarla ad un contesto prettamente sci-fi.
Dopo una rapida presentazione che ci introduce ad un background narrativo abbastanza succinto e privo di pathos in cui veniamo informati del fatto che nell’anno 2153, una spedizione inviata dalla NASA giunta finalmente sul pianeta conosciuto come Asteria per colonizzarlo e sfruttarne le risorse, viene spazzata via dal poderoso attacco di aggressive e mostruose creature autoctone che distruggono la nave madre e vi lasciano – pare – come unico superstite umano sulla superficie del pianeta. Da questo punto, in cui siamo rimasti soli e privi di mezzi in un ambiente ostile, inizia la vera avventura e ci rendiamo subito conto, tralasciando l’ovvia dimensione in meno e concentrandoci sulle meccaniche di gioco, della sua incredibile somiglianza con un Terraria shakerato Starbound, dalla gestione dell’inventario al sistema di crafting.
SCAVA, SCAVA…Sin dai primi istanti infatti emerge in modo limpido un gameplay che ricalca quanto già visto nel titolo di Re-Logic. Nei panni del nostro sopravvissuto e senza alcun obiettivo o altra indicazione utile, iniziamo l’avventura con due strumenti, fidi compagni di peripezie: un’arma con cui abbattere le minacce ostili e l’evoluzione tecnologica del classico piccone, per addentrarci nelle viscere di Asteria ed estrarre le preziose materie prime; queste ultime necessarie per sopravvivere e craftare decine di nuovi strumenti sempre più potenti per sconfiggere i nemici di alto livello, poter scavare più a fondo, raggiungere nuove risorse e così via, secondo una precisa circolarità che si ripete a ritmo incessante e che crea, in buona sostanza, dipendenza, almeno per le prime ore. Una volta che si inizia a scavare, il giocatore viene subitaneamente rapito dalla bramosia di andare ancora più in profondità per tentare di trovare le vene di minerali rari e preziosi, perché la terra cela già tutto quello di cui abbiamo bisogno e l’unico nostro obiettivo è semplicemente quello di trovare ciò che ci serve e craftarlo, magari tentando di tenere a bada le immonde ed insistenti creature che ci ostacolano il cammino. Il problema principale è che ancora mancano i contenuti di peso; ovvero le patch di aggiornamento che solo se costanti e solo col tempo potranno far pendere l’ago della bilancia verso il successo o il fallimento di questo gioco, a nostro avviso ancora in una fase troppo embrionale, anche per ciò che concerne il comparto multiplayer.
Ad ogni modo, tornando all’aspetto tecnico, oltre a perdere qualche ora a racimolare materiali per creare questo o quell’altro pezzo di equipaggiamento o per innalzare qualche rifugio sicuro, un obiettivo, in effetti, c’è. L’obiettivo ultimo è quello di trovare tutti i dungeon in cui si annidano le bestie responsabili del massacro della spedizione, ucciderle sino all’ultima e poi tornare allegramente a scavare. Rispetto alla controparte più famosa, Asteria possiede alcuni innesti da classico platform stile Metroidvania, più “veloce” rispetto all’illustre controparte. Anzitutto, oltre alla presenza pregnante della struttura tipica dei side scrolling game (salta, spara, esplora), in caso di morte il respawn avviene senza alcuna penalità; l’inventario resta integro e si rientra in gioco nel punto di respawn (creato da noi, ovviamente) più vicino, senza dunque perdere tempo nel fastidioso backtracking derivante dalla ricerca delle nostre sostanze perdute. L’inventario, a quanto abbiamo avuto modo di sperimentare grazie alla nostra patologia di accumulatori compulsivi, non è limitato come in altri titoli ed è quindi possibile aver sempre a portata di mano una ingente quantità di materiale; la gestione dello stesso però è abbastanza difficoltosa, stante un HUB scomodo, con i nove slot permanenti nella parte bassa ed il resto richiamabile solo col tasto ‘Tab’. Lo stesso si può dire anche per il range di movimenti del nostro alter ego, poco reattivo soprattutto nelle situazioni più concitate, ad esempio se si deve scappare da un nemico, il personaggio spesso e volentieri non trova di meglio da fare che incastrarsi in qualche pixel di roccia non allineato. Questo ci dà la possibilità di parlare del level e del character design non esattamente all’altezza del titolo. In particolare dungeon e nemici si presentano in modo piuttosto povero e lineare, dal punto di vista della caratterizzazione, così come il mondo di gioco creato in maniera procedurale ma abbastanza parco di vitalità e mordente.