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Attese

Creato il 05 luglio 2012 da Unarosaverde

Attese

A me gli animali non piacciono molto. Non fraintendetemi: l’affermazione deriva da una sensazione di paura mista ad una certa dose di disgusto per bava, alito e odore di pelo bagnato.

Quando mia madre tornò un giorno a casa con una gattina di tre mesi io avevo 16 anni e tenni la porta della camera chiusa perché non volevo che entrasse.  Poche settimane dopo facevo carte false e inventavo trucchi meschini per attirarla nel mio regno e mi sentivo immensamente privilegiata se decideva di fare le quattro ore di pisolino pomeridiano sul mio letto e si lasciava accarezzare sotto il mento facendo le fusa.

Mia madre e lei si erano scelte, al primo sguardo, e trascorsero insieme 19 anni d’amore. La gatta divenne la sua ombra: la seguiva ovunque, non la perdeva d’occhio tranne quando si dedicava al sacro rito del sonno o a quello della pulizia, ne faceva la sua referente, le si poneva accanto silenziosa quando la vedeva riposare, vicina ma non invadente, si piazzava col culo sul quotidiano aperto, mentre la sua umana leggeva, e veniva sollevata al voltare delle pagine e rimessa nella stessa imperturbabile posizione. Il giorno in cui ci lasciò era tra le braccia di mia madre, che la accarezzava piano, salutandola e ringraziandola per l’affetto incondizionato che ci aveva regalato. Noi eravamo creature di contorno nella sua vita: si rivolgeva a noi quando l’oggetto del suo amore andava troppo di fretta per i suoi gusti o quando cambiava il luogo del riposo: aveva deciso di provare, a rotazione trimestrale, ogni angolo soffice a disposizione.

Vivo in una grande casa bifamiliare: due strutture speculari sono unite per un lato e comunicano attraverso un terrazzo che funge anche da entrata. Dall’altra parte della porta a vetri abitavano i nonni e le zie e più volte al giorno mia madre attraversava i pochi metri ed entrava nell’altra casa per poi riemergerne minuti o ore dopo. A meno che non fosse impegnata nella ronfata, immancabilmente, la gatta si piazzava davanti alla porta a vetri e cominciava a piangere, fissando straziata la porta di fronte, con lunghi gemiti e miagolii che strappavano il cuore. A nulla valevano le coccole, l’allontanamento, due crocchette, un rocchetto di filo per farla giocare. Rimaneva lì, per tutto il tempo necessario, a soffrire disperata fino a quando l’oggetto del suo amore non riattraversava il terrazzo e rientrava nel territorio familiare.

Da un lato questo comportamento mi faceva sorridere, nella sua ripetitività: la mia gatta era creatura dignitosa ed elegante, definita dagli estranei snob, o stronza, in funzione del registro linguistico utilizzato. Fredda e sdegnosa questo era il suo unico attimo di cedimento e a nulla valevano le continue riprove che mia madre, ogni volta, sarebbe tornata e che non si trattava di un abbandono definitivo.

Dall’altro lato vederla così, col nasino appiccicato al vetro e la codona immobile a lato mi suscitava tenerezza, pena ed una punta di dolore anticipato, ogni volta, quando pensavo a cosa sarebbe stato, per me, in futuro, quando da quella porta non sarebbe più rientrata. E mi fermavo a riflettere sui meccanismi dell’attesa, lunga, penosa, sofferta, di questa gattona che rimaneva immobile a guardare di là dal vetro anche ore, se necessario.

“Se non ci metterà troppo, l’aspetterò tutta la vita.”, diceva Oscar Wilde. Quando si può attendere nella vita? Quanta dose di attesa possiamo sopportare? Che cosa dobbiamo fare nel tempo immobile per prepararci meglio e resistere? Davanti a quante porte abbiamo appoggiato naso e fronte e siamo rimasti ad aspettare?

Questo post è per N. e R.: so che non li aiuterà né allevierà la loro pena. Offro loro solo comprensione, anche se a me gli animali non piacciono molto.



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