Magazine Cultura

Febbraio 2016

Creato il 11 febbraio 2016 da Unarosaverde

Mi sono svegliata storta, questa mattina. Prima di tutto, era troppo presto. Le 6 e mezza. Non che fosse l’alba, intendiamoci, ma lo era in rapporto alle otto ore di sonno che mi permettono di funzionare e che, da qualche giorno, si sono ridotte. La colpa è mia e del gioco agli incastri che conduco tra impegni e desideri. Di solito mi alzo, faccio la pipì, levo l’allarme, sciabatto in cucina, aspetto che la moka preparata la sera prima produca – no, niente cialde, grazie; la beneficienza sul margine di guadagno la faccio ad altre aziende meno oscene – e pian piano mi sveglio con la complicità della caffeina e dello zucchero di un qualche dolce fatto in casa. Poi torno a letto e ci resto una ventina di minuti, sfogliando i giornali e ripassando mentalmente l’organizzazione della giornata. Alla fine mi alzo e sono pronta ad affrontare il fuori.

Stamattina il rituale è stato identico, salvo il fatto che non ha funzionato. A volte capita. Perciò, quando sono uscita, non ero pronta.

Non ero pronta ad affrontare settanta chilometri da percorre in coda, non ero pronta per i rumori dell’ufficio, non ero pronta per leggere email  di rimpallo costantemente incomplete, non ero pronta ad affrontare rifiuti. Stavo come la borsa: giù. Caduta. Ci sto anche adesso e anche la borsa, mi risulta. In pausa pranzo ho finito di leggere Peep Show, di Federico Baccomo e mi sono ulteriormente intristita. Ho pensato che tutta questa vita sovraesposta – si vede che sto frequentando il corso di fotografia, vero? Ieri sera ritratti con modelli veri, niente meno…e mi sono pure uscite le foto anche se non ho ben chiaro cosa ho impostato e, soprattutto, perché l’ho fatto -, tutta questa vita sovraesposta, dicevo, non sia l’ultima tentazione e che, invece di fare il voto quaresimale di mangiare dolci solo una volta al giorno, a colazione appunto ( giorno due: sta funzionando)  e di non dire parolacce che contengano z e gl o inizino per c, m, b, p e per f (giorno due: non sta funzionando) io dovrei concentrare i miei sforzi per accelerare le pratiche per la mia sparizione.

Tale sarebbe, appunto, anche se non nell’accezione funebre classica, il mio piano B: fuori dal fuori, via dalla mischia, lontano dal sistema. No smodati usi di automobile, no 46% di ritenuta annua media sullo stipendio, no colloqui con su la faccia di bronzo per ricordare al mio capo che mi aspetto in busta paga quanto da contratto e che no, non va bene che se ne siano dimenticati, no giramenti di scatole (inizia con s, posso) se la borsa crolla, poi ricrolla, poi ricrolla ancora e che sto pagando servizi alla banca perché mi perda i soldi, e no con lo shopping bulimico online di robe bellissime, non c’è che dire, ma che non mi servono, ma le compro perché sono bellissime e poi sai mai. E no che non m’importa – inizia con la i, sto andando bene – della solidarietà di Sanremo alle cause per i diritti civili perché è vuota e scontata e ostentata come i testi delle canzoni e la giornata di questo, e la giornata di quello e quando tutte le trecento sessantacinque giornate dell’anno saranno piene andremo in doppia fila? Che so, oggi giornata del cotechino dop e dell’herpes labiale. E no, che non voglio più sapere chi ha rubato cosa, chi è colluso con chi, che cosa dice il premier – che premier? Chi ha eletto il premier? Ma con tutta la fatica che si sta facendo per mandare via quello che si rigenera nella formaldeide ce ne arriva uno uguale e falsamente contrario, autoproclamatosi e peraltro giovanissimo che se ne starà ancorato alle poltrone come una patella al suo scoglio per lustri? Il Corriere diventa bellissimo e a pagamento così l’ho tolto dai preferiti, perché tanto no, che non voglio leggere.

Aspetta che cambio obiettivo, la mia l’ho comprata un anno fa, ma la voglio cambiare, guarda questa foto, e questa identica scattata un nanosecondo dopo allo stesso soggetto, stessa inquadratura, e questa ancora, questa e questa e bisogna impegnarsi molto e ti mando il link al mio album di flickr sui tre sassolini che stamattina c’erano davanti al cancello, che espressivi vedessi. E no che non capisco cosa ci sia da fotografare se una tizia si sdraia su un velo bianco sinuosa come un boa e vestita di pelle nera bondage, con il broncetto e le pose – e pensa che è pure  carina, un viso di occhi dolci e pelle chiara, sarebbe stata bene anche in jeans e maglietta, comoda su una sedia, per dire-, no proprio non lo capisco, anche se scatto e cerco di non bruciare la foto o di non ridurla ad una massa scura, anche se mentre si muove mi ricorda più le contorsioni da cagotto (cagotto non è una parolaccia) che una seduzione. Preferisco la foto alla luna, che ho trovato tra i messaggi una volta raggiunto il rifugio del piumone, dopo l’ultimo sforzo della giornata alle prese con un trinciante affilato, un cappello del prete da due chili e la preparazione della marinatura per il brasato di domenica. La luna è naturale, distaccata, naturalmente ombrosa e del tutto inconsapevole del fatto che sia famosa e che le ho sbadigliato in faccia.

E anche questo blog mi sovraespone, appaga la mia smania di rendermi visibile, di emergere e anche da questo blog mi allontanerò, prima o poi, e lui sparirà con me, perché non mi piacciono i blog appesi in attesa di un ritorno come vecchi golf dimenticati sull’attaccapanni nascosto dietro la porta. Prima o poi ce ne andremo via. Per ora rimane, ad accogliere questi flussi di coscienza scombinati e incoerenti, di rimandi e sottintesi che solo io posso cogliere. Ne farò un’edizione digitale, ad uso privato, da rileggere quando mi verranno le malinconie per la me che ero, che sono stata, che avrei potuto essere. Per quel che mi ha circondato e per gli odori, i colori, i suoni le immagini davanti agli occhi della vita di qui. Sto ancorata al passato con un’immaturità che peggiora di anno in anno.

E me la coltivo, la mia immaturità, perché trattengo mobili che hanno più di quaranta anni, che portano addosso i segni del mio passaggio e l’ingiallimento causato dalla luce del sole. Me li tengo e vorrei dar loro nuovo impulso, un revamping, e magari, se riesco, togliere di torno un po’ di rosa e tenermi solo il bianco. Il bianco è un buon colore con cui percorrere la strada verso i cinquanta. Lo spiegavo, ieri, ad un falegname, in un intervallo ritagliato tra la coda del ritorno con incidente altrui e la cena pronta di avanzi riscaldati miei, che ci sono affezionata a questa camera, tanto.  Ma non gli ho detto che la sto preparando per quando sarò sparita da fuori e la abiterò più a lungo. Non avrebbe capito. Ha ventisei anni, e fuori ci vuole stare ed è giusto che sia così. L’ho trovato per caso dopo un tentativo fallito con un altro giovane, ma non capace. Mi ha rassicurato quando gli ho chiesto da quanti anni lavorasse, mentre lo inondavo di chiacchiere e richieste e gli impedivo di concentrarsi per prendere le misure. Sono giovane, ma ho sempre lavorato, anche quando studiavo: in estate, il sabato, mi è sempre piaciuto e adesso sono io che progetto, mi ha risposto. Forse anche lui arriverà con i mobili storti e gli spessori dei ripiani sbagliati, o forse no. Perché io non gli ho chiesto da quanti anni lavorasse perché non mi fido di lui. Anzi. Era solo per vergognarmi di me davanti a quello che ho scoperto. Perché questo ragazzino ha qualcosa che da molto non mi sento più nella voce: la passione per quello che faccio per la maggior parte del tempo. E non basta, questa sola, come ragione per sparire? Game over. Avanti il prossimo. Io mi ritiro a contemplarmi i pensieri.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Magazines