Pubblicato da Andrea Sartori su dicembre 28, 2011
di Andrea Sartori
A partire dal 1991, con la pubblicazione presso Einaudi del libro di Corrado Stajano Un eroe borghese. Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica, l’indifferenza, se non la diffidenza, che circondava la figura di Giorgio Ambrosoli, è progressivamente mutata. Lo scorso 14 novembre 2011, ad esempio, l’Associazione Giorgio Ambrosoli ha organizzato, sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica, la prima Giornata della Virtù Civile, dedicata a un’altra figura di resistente contro l’illegalità e le mafie, quella di Libero Grassi. L’oblio si è così riconvertito in ricorrenza, e si è fatta strada l’idea che la condotta di Ambrosoli rappresenti un esempio trasversale di onestà e integrità etica, soprattutto in un’epoca in cui i crimini finanziari dei colletti bianchi sono lo strumento più subdolo con cui le aree corrotte dell’imprenditoria e della politica, non di rado assistite dalla malavita organizzata, addebitano alla collettività i costi di spregiudicate operazioni speculative e di imbrogli di bilancio.
«Sindona non lo ritengo un’eccezione. Di Sindona probabilmente ce ne é qualcuno ancora in giro: cambi il nome, cambi la faccia ma la sostanza rimane», diceva l’avvocato Ambrosoli in un’intervista alla televisione svedese, trasmessa dalla Rai solo nel 1986.
D’altra parte, Salvatore Bragantini, ex commissario della Consob e commentatore del Corriere, ha in tempi recenti scritto che sono scandali come quelli di Bernard Madoff, e prima ancora di Cirio e di Parmalat, a doverci ricordare come la figura del liquidatore della banca sindoniana sia di estrema attualità (Trent’anni dopo, in Giorgio Ambrosoli. Nel nome di un’Italia pulita, a cura di Sandro Gerbi, Aragno Editore, Torino 2010). Attuale, infatti, è non solo l’immagine di un uomo che, sottoposto a pressioni indicibili e minacce, ha saputo restare libero, sebbene al prezzo della vita, ma anche un metodo di lavoro.
Come Gherardo Colombo (il magistrato incaricato con Giuliano Turone di indagare sull’omicidio) ha confidato un giorno al figlio di Giorgio Ambrosoli, Umberto, a suo padre sarebbe bastato omettere una firma, tralasciare un dettaglio, e avrebbe avuto salva la vita, senza che nessuno potesse obiettare alcunché (Umberto Ambrosoli, Qualunque cosa succeda. Giorgio Ambrosoli oggi nelle parole del figlio, pref. di Carlo Azeglio Ciampi, Sironi Editore, Milano 2009). La passione per la verità e il senso delle istituzioni hanno pesato più di qualunque altra considerazione nell’orientare le scelte del commissario liquidatore. La sua mente investigativa, e non solo amministrativa, aveva ben chiaro il tripartito schema economico-finanziario – ricostruito nelle sue linee essenziali da Stajano e tutt’oggi d’interesse – sotteso alla condotta fraudolenta di Sindona. Per entrare in possesso dei capitali a lui necessari, il bancarottiere si muoveva lungo tre filoni: le aziende, le società finanziarie, le banche. Le prime, scrive Stajano, erano «merce di scambio», che Sindona acquisiva quando erano dissestate e poi risanava o fingeva di risanare, rivendendole dopo averne truccato i bilanci per incassare cospicui guadagni, preferibilmente all’estero. Qui, infatti, e in specie nei paradisi fiscali, si collocavano le sue società finanziarie, le quali svolgevano il compito di trasferire capitali, nascondere la proprietà delle aziende, rendere impossibile la tracciabilità delle singole frodi. Le banche, infine, erano captive banks nell’accezione peggiore: avevano «interessenze in società e viceversa», scrive sempre Stajano, ovvero fornivano «risorse alle imprese del gruppo, sia in forma palese sia in forma occulta». In tal modo, sostenne la relazione di minoranza della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona (1982), «quasi tutti i prestiti andavano a favore del gruppo e gli stessi fiduciari, pur mascherati da rapporti interbancari, erano pur sempre rapporti intragruppo». Un’attitudine, come si vede, alla prestidigitazione finanziaria che non è passata di moda.
Quando oggi, magari presi da un legittimo sconforto, abbandoniamo ogni fiducia nelle istituzioni e giungiamo con l’astensione a rinunciare all’esercizio del nostro diritto di voto, dovremmo abituarci a tenere a mente l’esempio dell’avvocato Ambrosoli, uomo delle istituzioni eppure abbandonato da queste anche il giorno del suo funerale (delle autorità di Stato fu presente solo Paolo Baffi, nuovo governatore della Banca d’Italia).
La libertà del cittadino moderno, scrive il filosofo Lucio Cortella, nella sua recente ricognizione critica sulla filosofia del diritto di Hegel (L’etica della democrazia, Marietti 1820, Milano 2011), non s’oppone alle istituzioni, ma si incarna in esse, è ethos cristallizzato «in un sistema giuridico, in una prassi sociale, in istituzioni politiche e civili», ovvero in «un carattere civile», in forza del quale «l’individuo moderno antepone l’autonomia di giudizio al conformismo (…). La capacità di essere liberi e di accettare la libertà e i diritti degli altri – prosegue Cortella – non è una nostra qualità innata, ma presuppone un processo di apprendimento e di educazione, messo in atto proprio dal carattere “etico” delle istituzioni».
Oggi la figura di Giorgo Ambrosoli entra, finalmente, nel novero dei riferimenti ideali di un processo di miglioramento e di apprendimento civile del Paese, che non può, né deve, venire meno. Lo stesso Ambrosoli, per primo, non venne meno al suo senso dello Stato, nonostante la condotta ora omissiva, ora ostativa, di altri uomini di Stato, o comunque preposti alla limpida tutela del bene comune: Guido Carli, Giulio Andreotti ed Enrico Cuccia sopra tutti.