Anna Lombroso per il Simplicissimus
Vien voglia di dare ragione a Gramsci che odiava il Capodanno, la liturgia coatta del ripetersi di auspici, il rito stanco del rinnovarsi di chimere, che assomiglia troppo alle promesse dell’illusionista che per vent’anni ci ha offerto una realtà parallela, una vita come spettacolo, coi premi in gettoni d’oro per chi credeva che il mercato fosse ok il prezzo è giusto, che la giustizia si esercitasse a Forum e che la democrazia avesse i suoi templi nei talkshow.
Vien voglia di dire maledetto Capodanno, da quando le speranze sono elargite a condizione che si balli come scimmiette al suono della pianola dell’imbonitore, da quando i dubbi sono condannati come insana diserzione, da quando gli oroscopi hanno preso il posto dei programmi, i giuramenti sono labili come i baci di amanti infedeli, i patti sono accordi misteriosi e opachi stretti negli arcana imperii. E se i botti e i mortaretti sembrano l’eco sinistro di una guerra che ci vede soldati involontari.
Ma la fiducia è una tentazione irriducibile, l’aspettativa ha una seduzione irresistibile, ho voglia di festeggiare questo Capodanno e Rosh Hashanah, Festa di Primavera, Staryj Novyj God. E di fare gli auguri a tutti noi, uno in particolare, quello di concederci il sogno. Sogno proibito, che ormai chi sogna che sia possibile qualcosa d’altro da dissipato utopista è diventato gufo sleale, disfattista rinnegato che trama contro la nazione e il partito che dovrebbe rappresentarla. Auguri di sottrarsi al diktat del pragmatismo, all’imperio della concretezza, quella mediatica, quella propagandistica, quella menzognera, quella ad personam, quella contabile, quella statistica, al servizio della necessità che obbliga al realismo, dell’ubbidienza che consiglia di cedere ai ricatti, del conformismo che aiuta la sopravvivenza, per godersi il riscatto di immaginarsi il proprio futuro, per disegnarsi liberamente i propri desideri repressi come una colpa, una cattiva abitudine, un vizio morboso.
Auguri di trovare coraggio, di riprendercelo perché non è peccato, non è velleitarismo, non è pazzia asociale. Al contrario è la condizione per esprimere amicizia, quella che è bello provare per chi è diverso da noi, perché possa esserlo a pari condizioni, quella che ci fa indovinare le parole di chi non ha voce e ripeterle in modo che tutti siano costrette a sentirle, quella che ci fa dire di no, una parola così piccola ma così estrema che sembra sia diventata monopolio di chi detiene il potere e interdetta a noi, così che dobbiamo accettare ponti, svendite, navi come condomini, ferrovie velocissime per andare chissà dove, fiere di cibi quando si ha fame. E dire si alla fame, compresa quella di diritti negati come doni immeritati, di lavoro, ridotto a servitù, di certezze retrocesse a elargizioni arbitrarie e discrezionali.
Auguri di uscire dal letargo, da quella sonnolenza che deriva dalla perdita, da nuove privazioni, dalla malinconica abdicazione a esserci, a contare e contarsi scoprendo che si è tanti, che insieme la scontentezza diventa consapevolezza, responsabilità e lotta.
Auguri di non sentire questo grande freddo che legittima il nostro essere stremati, arresi, disincantati: la capitolazione non è l’unico diritto che ci è rimasto, ne è la negazione invece e se proviamo giusta collera, proprio questa deve incendiare la volontà di riprenderci prerogative, sogni, utopia, conoscenza, amore, vincoli antichi e antiche alleanze, quelle che legano e muovono chi cerca riscatto, chi aspira alla dignità, chi crede che la libertà sia un dovere da perseguire e mantenere ad ogni costo.