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Auguri in poesia: Le ciaramelle (Pascoli)

Creato il 24 dicembre 2014 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
Il Natale è alle porte e, sebbene non sia una gran festaiola (quest'anno probabilmente salta anche l'addobbo dell'albero), quest'anno ne sentivo davvero il bisogno: fra il lavoro e i temutissimi esami, gli ultimi mesi sono stati frenetici, come certamente è stato l'anno di molti di voi lettori. Ora è finalmente il momento di trovare un po'di tranquillità e di riposare, in attesa di un anno che auguro a tutti pieno di soddisfazioni e serenità.Le vacanze che iniziano quest'oggi si preannunciano ricche di abbuffate e, soprattutto di tanti libri, di cui ho fatto scorta per l'occasione, anche se la pila di volumi in attesa era già alta... ho in coda di lettura L'abbazia di Northanger, Sostiene Pereira, un revival del Ciclo dei Vinti, un manga atteso per mesi e, ovviamente, il famoso progetto di rilettura (a tal proposito, arriverà nei prossimi giorni la recensione di Memorie di Adriano). Ci sarà anche più tempo per il blog, con nuovi post letterari, storici e artistici.
Auguri in poesia: Le ciaramelle (Pascoli)
Se l'anno scorso ho affidato i miei auguri ad una veloce carrellata di opere d'arte e poesie dedicate al Natale, oggi vi porgo i miei auguri con un approfondimento della mia poesia preferita dedicata alle festività: Le ciaramelle di Giovanni Pascoli.
Udii tra il sonno le ciaramelle,
ho udito un suono di ninne nanne.
Ci sono in cielo tutte le stelle,
ci sono i lumi nelle capanne.
Sono venute dai monti oscuri
le ciaramelle senza dir niente;
hanno destata ne' suoi tuguri
tutta la buona povera gente.
Ognuno è sorto dal suo giaciglio;
accende il lume sotto la trave;
sanno quei lumi d'ombra e sbadiglio,
di cauti passi, di voce grave.
Le pie lucerne brillano intorno,
là nella casa, qua su la siepe:
sembra la terra, prima di giorno,
un piccoletto grande presepe.
Nel cielo azzurro tutte le stelle
paion restare come in attesa;
ed ecco alzare le ciaramelle
il loro dolce suono di chiesa;
suono di chiesa, suono di chiostro,
suono di casa, suono di culla,
suono di mamma, suono del nostro
dolce e passato pianger di nulla.
O ciaramelle degli anni primi,
d'avanti il giorno, d'avanti il vero,
or che le stelle son là sublimi,
conscie del nostro breve mistero;
che non ancora si pensa al pane,
che non ancora s'accende il fuoco;
prima del grido delle campane
fateci dunque piangere un poco.
Non più di nulla, sì di qualcosa,
di tante cose! Ma il cuor lo vuole,
quel pianto grande che poi riposa,
quel gran dolore che poi non duole;
sopra le nuove pene sue vere
vuol quei singulti senza ragione:
sul suo martòro, sul suo piacere,
vuol quelle antiche lagrime buone!
Il componimento fa parte della raccolta Canti di Castelvecchio (1903), sospesa fra la grande tradizione poetica (il titolo richiama i Canti leopardiani) e una punta autobiografica nel riferimento al paese in cui Pascoli stabilisce il nido familiare costruito attorno a sé e alle sorelle Lia e Mariù. Molto meno nota de Il gelsomino notturno o di Nebbia, questa poesia è stata spesso sottovalutata per via della sua musicalità, quasi da filastrocca e per un registro infantile che, tuttavia, è l'essenza di tutta la poesia pascoliana e richiama la famosa poetica del Fanciullino, secondo la quale il poeta deve farsi bambino nel guardare al mondo e nel descriverlo.
Nel rispetto dell'onnipresente modello leopardiano, che nei Canti di Castelvecchio si accentua particolarmente, Pascoli delinea una descrizione che centellina i particolari, affidandosi ad una continua alternanza fra dati sonori e dati visivi (che in Leopardi corrispondono alle teorie del suono e della visione), i primi concentrati nel suono delle zampogne, i secondi sull'apparire delle luci, stelle o lumi di candela che siano, in un insieme che, come nel Sabato del villaggio, va popolandosi di vita, trasformando il paese in un piccolo presepe, con una scelta che la pubblicità non avrebbe tardato a replicare.
Le ciaramelle, udite da Pascoli adulto, riescono a ristabilire un contatto con il passato felice: il loro suono si trasforma in «suono di chiesa, suono di chiostro, / suono di casa, suono di culla, / suono di mamma, suono del nostro /dolce e passato pianger di nulla» e basta questo innescarsi del ricordo per portare la serenità, poiché quella realtà confortevole e materna in cui vivono i fanciulli, trasportata sulla scia della musica, prende il posto della dura realtà di chi è assillato dalle preoccupazioni continue. Dell'infanzia il poeta non rimpiange però solo la gioia e la calda atmosfera di un Natale sognante nel caldo di un letto cullato dalla voce familiare, ma anche le lacrime e i dolori da nulla che patiscono i bambini e che, ammirati da lontano, per un adulto sono certamente preferibili alle sofferenze del proprio presente. Anche questo tema è desunto da Leopardi, che, in Alla luna, rimpiangeva il passato dell'adolescenza al punto di trovare giovamento perfino nel ricordarne i momenti tristi, perché allora il Vero (termine comune a Leopardi, che lo usa in A Silvia, v. 60 e a Pascoli, che qui lo sceglie per la strofa settima) e la sua crudezza non si erano ancora manifestati: «E pur mi giova / la ricordanza e il noverar l'etate / del mio dolore» (vv. 10-12). Il pianto, allora, diventa buono e buono diventa il Natale, l'occasione per commuoversi di fronte ad un ricordo e di cercare nel piento stesso una liberazione dalle preoccupazioni, che è poi ciò che tutti ci auguriamo nel nostro Natale.
Buone Feste!
C.M. 

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