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Non stupirà, visto il massiccio minutaggio, se la dilatazione del narrato è la strada percorsa da Puiu, e allora, giusto per far capire com’è la situazione, bisogna aspettare la metà del film per capire quali siano gli intenti del personaggio principale interpretato dal regista stesso. Prima, un’ora e venti di scarso materiale su cui ragionare, solo un uomo che vaga, che spia, che parla (poco); dopo il giro di boa si riscontrano le stesse cose con una piccola aggiunta: lui è un assassino.
Le riprese sono equiparabili al lavoro di 5 anni precedente The Death of Mr. Lazarescu, difatti abbiamo un focus d’attenzione su un singolo personaggio che nel suo percorso si relaziona all’interno di una grande ragnatela che è la città; inoltre il taglio visivo è molto simile: la scelta coraggiosa di non affidarsi al canonico shot-reverse shot spiana i battenti ad un linguaggio filmico segmentato all’interno di numerosi piani sequenza dove la mdp è spesso immobile sul proprio cavalletto e gli attori entrano ed escono dal campo visivo. Se poi teniamo conto che i dialoghi subiscono estrema rarefazione e le musiche sono totalmente bandite, abbiamo un cinema spoglio, il che non andrebbe visto come una pecca perché le vicende del signor Lazarescu mi avevano convinto molto, quelle del signor Viorel, invece, le ho trovate spossanti, un po’ noiose, e, appunto, parecchio faticose.
Vediamo perché.
In primis mi viene da pensare all’empatia. Con l’anziano moribondo la scintilla del sentimento scoccava con facilità, per quest’uomo di mezz’età l’indifferenza spettatoriale trionfa. Mood voluto e cercato, d’altronde non era negli intenti tifare per lui, eppure non lo si odia nemmeno, né lo si comprende o ci si rammarica nel vedere quello che combina. Distacco, apatia, freddezza e sbadigli.
Poi penso all’incursione sociale del film precedente atta a bombardare alle fondamenta il sistema sanitario rumeno, al contrario qui, nonostante i riferimenti espliciti a Bucarest (il film dovrebbe fare parte di un sestetto dedicato alla capitale), c’è una sorta di anonimia geografica che pervade la scena. Triste, grigia, desolata quanto volete, ma rintracciabile in molte altre pellicole est europee.
Infine ragiono un poco sulla figura centrale. Spiegazioni della sua lucida follia non ce ne sono, e se ci sono (il brutto male) vengono appena appena menzionate, per carità, nessuna ricerca spasmodica delle cause, tuttavia la questione si fa delicata perché in fin dei conti durante la confessione alla polizia che dovrebbe funzionare da scioglimento, si apprende che il tutto ha riguardato omicidi famigliari i cui moventi a noi celati non sono poi così incomprensibili.
Può anche essere che il pragmatismo con cui Viorel unisce l’efferatezza da killer alle attenzioni verso la figlia stupisca, parlando di stupore vero, però, in Aurora non si riesce a scovare niente che vi possa appartenere. La lunghezza non aiuta ma nemmeno deve essere una scusante, creare dell’ affascinante materia prima su cui elaborare un costrutto è il primo compito che Puiu deve adempiere per il suo prossimo film. Perché così, non va.
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