Siamo ormai abituati a ricollegare Auschwitz, Birkenau, Dachau e gli altri campi di concentramento e di sterminio nazisti alle immagini impressionanti dei forni crematori, delle camere a gas e delle baracche dove milioni di uomini persero la vita in quella parentesi buia di storia. L’eccidio perpetrato dai nazisti ai danni degli ebrei, degli zingari, di altre minoranze etniche e degli omosessuali è un’immagine indelebile che fa ormai parte – tragicamente – della storia dell’umanità.
Ciò non significa affatto che quel sangue innocente abbia del tutto corretto per sempre il destino della civiltà umana. Ad oggi, purtroppo, si assiste ancora ai massacri nelle guerre tribali dell’Africa, alle violenze dei tagliagole dell’Isis e agli attentati delle organizzazioni terroristiche disseminate nel mondo.
Cosa ci ha insegnato, dunque, la tragica notte di Auschwitz? Qual è stato l’insegnamento concreto di quegli anni bui? Il Giorno della Memoria è qui per ricordarci gli errori di cui è capace l’uomo, l’efferatezza dei suoi atti e l’immensità del suo odio. Eppure, nella tristezza profonda di Auschwitz, è ancora possibile trovare un briciolo di umanità: un residuo di quell’amore che è stato terribilmente calpestato e sommerso dalla barbarie nazista. Il nome intorno al quale ruota ancora questo barlume di speranza è Massimiliano Maria Kolbe, presbitero e francescano polacco, beatificato da papa Paolo VI nel 1971 e canonizzato da papa Giovanni Paolo II nel 1982. Il ricordo del suo nome è collegato a quel sacrificio a cui lui stesso s’è votato, rinunciando alla propria vita. Massimiliano Kolbe arrivò ad Auschwitz nel maggio del 1941 con la matricola 16670. Fu destinato da subito al trasporto dei cadaveri. Sebbene fosse vietato dallo statuto del campo di concentramento, Kolbe continuò il suo servizio sacerdotale fra gli internati, celebrando addirittura la messa un paio di volte nel corso della sua prigionia. Nel luglio dello stesso anno venne trasferito al Blocco 14, dove iniziò il lavoro di mietitura. Durante la presenza nel Blocco 14, uno dei compagni di prigionia di Kolbe tentò la fuga. Per rappresaglia le autorità del campo decisero di condurre dieci prigionieri nel bunker della fame, dove avrebbero trovato la morte fra gli stenti. Fra questi uomini venne selezionato un padre di famiglia, il quale – sentendosi destinato a quell’orribile morte – scoppiò in lacrime. Kolbe fece dunque un passo avanti, offrendosi al posto di quell’uomo. Venne allora rinchiuso nel Blocco 13. Sei dei dieci internati trovarono la morte nelle prime due settimane di agonia. Gli ultimi quattro, fra cui Kolbe, resistettero ancora innalzando preghiere alla Madonna. Scioccati dall’orrore di quell’agonia disumana, alcune guardie SS decisero per l’uccisione dei quattro superstiti nel giorno dell’Assunzione di Maria mediante iniezione di acido fenico. Il sacrificio di Kolbe ad Auschwitz permise la sopravvivenza di quel padre di famiglia, altrimenti destinato alla morte. Questi tornò a casa e riabbracciò ancora sua moglie, mentre i due figli finirono vittime di un bombardamento russo.
Auschwitz è stata così la lunga notte della storia umana, riconsegnata ai posteri col monito di quanti hanno perso o sacrificato la propria vita, schiacciati dal peso di una follia.
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