Senza peli sulla lingua, come è suo costume, Lord Skidelsky riassume i grossolani errori degli economisti pro-austerity, tra cui Alberto Alesina, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff. I governi dovrebbero stare alla larga da certi consiglieri.
di Robert Skidelsky
La dottrina consistente nell’imporre sofferenze oggi in cambio di benefici nel futuro ha una lunga storia, fino ad arrivare ad Adam Smith con la sua lode alla “parsimonia”. E la si sente di più proprio quando i tempi diventano duri. Nel 1930, il presidente americano Herbert Hoover fu così consigliato dal suo segretario al Tesoro, Andrew Mellon: “Liquidate lavoro, liquidate le scorte, liquidate i contadini, liquidate gli immobili. Farà spurgare quanto c’è di marcio nel sistema … la gente … vivrà con più moralità e le persone intraprendenti raccoglieranno i cocci prodotti da quelle meno competenti.”
L’economia precedente il 2008 ha strabordato di “liquidazionisti” del genere di Mellon, come un cancro, nel settore bancario, in quello immobiliare e mobiliare, che deve essere asportato affinché ritorni lo stato di salute. La loro posizione è chiara: lo Stato è un parassita, che succhia la linfa vitale della libera impresa. Le economie gravitano naturalmente verso un equilibrio di piena occupazione, e, dopo uno shock, lo fanno abbastanza rapidamente se non ostacolate da un’azione di governo sbagliata. Questo è il motivo per cui sono fieri oppositori dell’interventismo keynesiano.
L’eresia keynesiana consisteva nel negare che ci fossero simili forze naturali, almeno nel breve periodo. Questo era al centro della celeberrima osservazione che “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Keynes riteneva che le economie potessero fissarsi in prolungati periodi di “equilibrio di sotto-occupazione” ; in casi del genere è necessario uno stimolo esterno di un qualche tipo per riportarli ad un più alto livello di occupazione.
In poche parole Keynes credeva che non si può tutti comprimere il processo di crescita allo stesso tempo. Credere altrimenti significa commettere la “fallacia di composizione”. Ciò che vale per le parti non è vero per il tutto. Se tutta l’Europa fa taglia, il Regno Unito non può crescere; se il tutto il mondo taglia, la crescita mondiale si fermerà.
In queste circostanze, l’austerità è esattamente l’opposto di ciò che è necessario. Un governo non può liquidare il suo deficit se la fonte delle sue entrate, il reddito nazionale, è in diminuzione. E’ la riduzione del deficit, non il debito, ad essere controproducente, perché implica lo spreco del capitale umano e fisico disponibile, a parte la miseria che ne scaturisce.
I sostenitori dell’austerità si basano su uno ed un solo argomento: se la contrazione fiscale è parte di un credibile programma di “consolidamento” volto a ridurre in modo permanente la quota dello Stato nel Pil, le aspettative delle imprese saranno così incoraggiate dalla prospettiva di tasse più basse e profitti più elevati, che la conseguente espansione economica sarà più che compensata dalla contrazione della domanda causata da tagli alla spesa pubblica. L’economista Paul Krugman chiama la “fata fiducia”.
L’argomento pro-austerità è semplicemente un’affermazione da sottoporre a verifica, e così gli econometrici si sono impegnati nel cercare di dimostrare che quanto meno il governo spende, tanto più velocemente l’economia cresce. In effetti, solo un anno o due anni fa, la “contrazione fiscale espansiva” era di gran moda, ed è stato speso un massiccio sforzo di ricerca per provarne l’esistenza.
Gli economisti sono arrivati ad alcune correlazioni sorprendenti. Ad esempio, “un aumento della dimensione pubblica di dieci punti percentuali è associato ad un tasso di crescita annuo inferiore 0,5-1%.” Nel mese di aprile 2010, il capo di questa scuola, Alberto Alesina dell’Università di Harvard, ha assicurato i ministri delle finanze europei che “anche le forti riduzioni dei disavanzi di bilancio sono state accompagnate e immediatamente seguite da una crescita sostenuta, piuttosto che da recessioni, anche nel brevissimo periodo”.
Ma due errori hanno inficiato le “prove” offerte da Alesina e altri. In primo luogo, poiché i tagli dovevano essere “credibili” – vale a dire grandi e significativi, – la continua assenza di crescita potrebbe essere attribuita all’insufficienza dei tagli. Così, l’incapacità dell’Europa di recuperare “nell’immediato” è stata a causa di una mancanza di austerità, anche se il ridimensionamento del settore pubblico è stato senza precedenti.
In secondo luogo, i ricercatori hanno commesso il grossolano errore statistico di confondere la correlazione con la causalità. Se si trova una correlazione tra la riduzione del disavanzo e la crescita, la riduzione potrebbe essere la causa della crescita o viceversa. (O entrambi la riduzione del disavanzo e la crescita potrebbero essere dovuti a qualcos’altro – svalutazione o maggiori esportazioni, per esempio.)
Un articolo del 2012 del Fondo Monetario Internazionale ha messo fine all’ora di gloria di Alesina. Utilizzando lo stesso materiale di Alesina, i suoi autori hanno sottolineato che “mentre è plausibile ipotizzare che gli effetti legati alla fiducia siano stati in gioco nel campione statistico dei consolidamenti, durante le recessioni non sembrano essere stati mai abbastanza forti da rendere espansivi i consolidamenti “. La contrazione fiscale è restrittiva, punto.
Un esempio ancora più spettacolare di errore statistico e gioco di prestigio è l’affermazione ampiamente citata degli economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff che la crescita dei paesi rallenta bruscamente se il rapporto debito/PIL supera il 90%. Questo risultato riflette la massiccia sovraesposizione di un paese nel loro campione, e c’è la stessa confusione tra correlazione e causalità vista nel lavoro di Alesina: livelli di debito elevati possono causare una mancanza di crescita, o una mancanza di crescita può causare elevati livelli di debito.
L’austerità è basata su queste fondamenta di economia zombie e di ricerche raffazzonate. Infatti i propugnatori dell’austerità nel Regno Unito e in Europa spesso citano i risultati di Alesina e di Reinhart&Rogoff.
I risultati dell’austerità sono stati quelli che ogni keynesiano si sarebbe aspettato: quasi nessuna crescita nel Regno Unito e nella zona euro negli ultimi due anni e mezzo, ed un enorme declino in alcuni paesi; una piccola riduzione dei disavanzi pubblici, nonostante i grandi tagli di spesa; maggiori debiti nazionali.
Altre due conseguenze dell’ austerità sono state meno apprezzate. In primo luogo, la disoccupazione prolungata non distrugge solo la produzione attuale, ma anche quella potenziale, erodendo il “capitale umano” dei disoccupati. In secondo luogo, le politiche di austerità hanno colpito i soggetti collocati in fondo nella scala della distribuzione del reddito molto più severamente di quelli in alto, semplicemente perché quelli in alto fruiscono molto meno dei servizi pubblici.
Rimarremo pertanto in uno stato di “equilibrio di sotto-occupazione” fino a quando la politica nel Regno Unito e della zona euro non cambierà (e supponendo che la politica degli Stati Uniti non diventi peggiore). A fronte dell’incitazione proveniente da destra a tagliare ancora più selvaggiamente, gli uomini di stato troppo timidi nell’aumentare la spesa pubblica farebbero una cosa saggia ignorando questi consigli.
Fonte: Project Syndicate
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