Va avanti da oltre 3 anni l’occupazione
della ex scuola di Via delle Acacie 56, nel cuore di Centocelle; una
scuola elementare di proprietà della famiglia Luciani, a cui il comune
di Roma pagava l’affitto. Quando la didattica fu trasferita in un nuovo
edificio pubblico, nel gennaio 2008, lo stabile di via delle Acacie fu
lasciato a se stesso. Così nel maggio dello stesso anno il Comitato di
lotta per la casa decide di occuparla con 70 famiglie. Poco prima
avevano tentato di occupare una scuola abbandonata a Ponte Mammolo, ma
alcuni residenti del quartiere, spalleggiati da un gruppo di militanti
di estrema destra, in poche ore li costrinsero a sgomberare con taniche
di benzina, insulti xenofobi e minacce.
Oggi in via delle Acacie 56 vivono 49
famiglie distribuite su 6 piani dello stabile: le aule sono diventate
mini-appartamenti dignitosi e accoglienti, il seminterrato, che ospitava
la palestra, è ora sede di alloggi provvisori per le famiglie in attesa
di sistemazione, un ampio spazio in comune e un’ officina popolare. 49
famiglie corrispondono ad altrettante storie, di migranti e italiani,
romani e meridionali, giovani anziani e bambini, tutti accomunati
dall’esigenza di avere un tetto sotto cui ripararsi, ma soprattutto una
sistemazione dignitosa e alternativa rispetto a case popolari e
residence, che il Campidoglio promette invano da anni. Attualmente Roma
spende 33milioni di euro l’anno per dare un alloggio popolare a circa
1500 famiglie nei residence, pagando mensilmente, a proprietari
privati, un canone di circa 1800 euro al mese. E restano in attesa di
ottenere un alloggio circa 80mila famiglie: i bandi per le assegnazioni
sono fermi dal 2007, e la lista non scorre più. Dal 2007 ad oggi
l’emergenza abitativa a Roma è ovviamente peggiorata, sempre più persone
hanno perso il lavoro, e con esso la possibilità di pagare un affitto o
un mutuo: solo nel 2011 sono state 6 mila le sentenze di sfratto in
città, e gli sfratti esecutivi sono quantificati in 2 mila circa ogni
anno. Nella maggior parte dei casi la causa è la morosità associata al
costante aumento dei canoni d’affitto, che a Roma non sembrano risentire
della crisi.
In una situazione tale, ciò che fa il
Comitato di lotta per la casa può trasformarsi in modello:
auto-finanziamento, autogestione e condivisione collettiva delle
abitazioni come beni comuni.E ancora: multietnicità, comunità e
sincretismo culturale. Gli occupanti provengono dall’America
Latina come dai Paesi Arabi, dal Sud Italia come dai Paesi dell’Europa
dell’Est. Le donne sono il motore dell’occupazione: alle assemblee
prendono la parola, decidono e sono quasi sempre loro a votare a nome
delle famiglie occupanti. Le donne decidono come arredare e
personalizzare gli appartamenti e, soprattutto, tutta al femminile è la
leadership del comitato formata da Pina, Silvia e Serena.
Da
circa un anno lo stesso gruppo ha occupato anche la scuola Hertz, altro
stabile abbandonato a pochi passi dalla stazione Anagnina. “Via delle
Acacie è stato definito ‘il modello dell’occupazione a cinque stelle’, ci spiega Silvia, ma con l’Hertz siamo riusciti ad andare oltre,
affermando la necessità dell’auto-costruzione”. All’Hertz, infatti, ogni
famiglia versa mensilmente una quota di 100 euro per un fondo cassa
collettivo, ognuno si dà da fare, secondo le proprie competenze, per
costruire i nuovi appartamenti senza sapere qual è quello in cui poi
andrà a vivere. E ogni alloggio rispetta le normative vigenti, ha un
proprio bagno e tutti i comfort. “Molti bambini prima di entrare alla
Hertz o nella scuola di via delle Acacie non conoscevano un bidè o un
box doccia, così come non avevano mai avuto a disposizione spazi in cui
giocare o studiare tutti assieme” ci racconta Pina. Proprio sui bambini
il comitato vuole scommettere, e a loro vuole dare un futuro oltre che
un’abitazione: per i bambini sono allestiti spazi verdi così come una
piscina per l’estate, sono previste ripetizioni scolastiche e attività
ricreative; e tutto avviene con un genuino e sano scambio culturale,
esempio di integrazione che funziona e che raramente è osservabile in
pezzi anche molto avanzati di società.
E
il Comitato di lotta per la casa propone al Campidoglio di riconoscere
il lavoro sinora svolto. Come? Per esempio acquistando gli immobili dai
privati, e accettando poi di ricevere un fondo (anche per pagare le
utenze) dalle famiglie occupanti – “che non hanno nessuna intenzione di
occupare gratis un alloggio, semplicemente vogliono pagare quanto
possono” ribadiscono in assemblea –, e lasciando alle stesse la
possibilità di gestirli collettivamente. E allo stesso modo gli
innumerevoli immobili pubblici che Roma si appresta a svendere ai
privati, potrebbero restare pubblici ed essere gestiti collettivamente
per risolvere, o arginare, l’emergenza casa a Roma che sta generando un
esercito di nomadi del terzo millennio. Le istituzioni non rispondono,
ma queste pratiche stanno dimostrando che spesso al fallimento dei due
modelli di pubblico e privato occorre rispondere con una terza via:
quella dell’autogestione collettiva e dal basso.
Fonte
Magazine Società
Autogestione, autofinanziamento dal basso e multietnicità per garantire il diritto all'abitare.
Creato il 08 febbraio 2013 da Gianna
Va avanti da oltre 3 anni l’occupazione
della ex scuola di Via delle Acacie 56, nel cuore di Centocelle; una
scuola elementare di proprietà della famiglia Luciani, a cui il comune
di Roma pagava l’affitto. Quando la didattica fu trasferita in un nuovo
edificio pubblico, nel gennaio 2008, lo stabile di via delle Acacie fu
lasciato a se stesso. Così nel maggio dello stesso anno il Comitato di
lotta per la casa decide di occuparla con 70 famiglie. Poco prima
avevano tentato di occupare una scuola abbandonata a Ponte Mammolo, ma
alcuni residenti del quartiere, spalleggiati da un gruppo di militanti
di estrema destra, in poche ore li costrinsero a sgomberare con taniche
di benzina, insulti xenofobi e minacce.
Oggi in via delle Acacie 56 vivono 49
famiglie distribuite su 6 piani dello stabile: le aule sono diventate
mini-appartamenti dignitosi e accoglienti, il seminterrato, che ospitava
la palestra, è ora sede di alloggi provvisori per le famiglie in attesa
di sistemazione, un ampio spazio in comune e un’ officina popolare. 49
famiglie corrispondono ad altrettante storie, di migranti e italiani,
romani e meridionali, giovani anziani e bambini, tutti accomunati
dall’esigenza di avere un tetto sotto cui ripararsi, ma soprattutto una
sistemazione dignitosa e alternativa rispetto a case popolari e
residence, che il Campidoglio promette invano da anni. Attualmente Roma
spende 33milioni di euro l’anno per dare un alloggio popolare a circa
1500 famiglie nei residence, pagando mensilmente, a proprietari
privati, un canone di circa 1800 euro al mese. E restano in attesa di
ottenere un alloggio circa 80mila famiglie: i bandi per le assegnazioni
sono fermi dal 2007, e la lista non scorre più. Dal 2007 ad oggi
l’emergenza abitativa a Roma è ovviamente peggiorata, sempre più persone
hanno perso il lavoro, e con esso la possibilità di pagare un affitto o
un mutuo: solo nel 2011 sono state 6 mila le sentenze di sfratto in
città, e gli sfratti esecutivi sono quantificati in 2 mila circa ogni
anno. Nella maggior parte dei casi la causa è la morosità associata al
costante aumento dei canoni d’affitto, che a Roma non sembrano risentire
della crisi.
In una situazione tale, ciò che fa il
Comitato di lotta per la casa può trasformarsi in modello:
auto-finanziamento, autogestione e condivisione collettiva delle
abitazioni come beni comuni.E ancora: multietnicità, comunità e
sincretismo culturale. Gli occupanti provengono dall’America
Latina come dai Paesi Arabi, dal Sud Italia come dai Paesi dell’Europa
dell’Est. Le donne sono il motore dell’occupazione: alle assemblee
prendono la parola, decidono e sono quasi sempre loro a votare a nome
delle famiglie occupanti. Le donne decidono come arredare e
personalizzare gli appartamenti e, soprattutto, tutta al femminile è la
leadership del comitato formata da Pina, Silvia e Serena.
Da
circa un anno lo stesso gruppo ha occupato anche la scuola Hertz, altro
stabile abbandonato a pochi passi dalla stazione Anagnina. “Via delle
Acacie è stato definito ‘il modello dell’occupazione a cinque stelle’, ci spiega Silvia, ma con l’Hertz siamo riusciti ad andare oltre,
affermando la necessità dell’auto-costruzione”. All’Hertz, infatti, ogni
famiglia versa mensilmente una quota di 100 euro per un fondo cassa
collettivo, ognuno si dà da fare, secondo le proprie competenze, per
costruire i nuovi appartamenti senza sapere qual è quello in cui poi
andrà a vivere. E ogni alloggio rispetta le normative vigenti, ha un
proprio bagno e tutti i comfort. “Molti bambini prima di entrare alla
Hertz o nella scuola di via delle Acacie non conoscevano un bidè o un
box doccia, così come non avevano mai avuto a disposizione spazi in cui
giocare o studiare tutti assieme” ci racconta Pina. Proprio sui bambini
il comitato vuole scommettere, e a loro vuole dare un futuro oltre che
un’abitazione: per i bambini sono allestiti spazi verdi così come una
piscina per l’estate, sono previste ripetizioni scolastiche e attività
ricreative; e tutto avviene con un genuino e sano scambio culturale,
esempio di integrazione che funziona e che raramente è osservabile in
pezzi anche molto avanzati di società.
E
il Comitato di lotta per la casa propone al Campidoglio di riconoscere
il lavoro sinora svolto. Come? Per esempio acquistando gli immobili dai
privati, e accettando poi di ricevere un fondo (anche per pagare le
utenze) dalle famiglie occupanti – “che non hanno nessuna intenzione di
occupare gratis un alloggio, semplicemente vogliono pagare quanto
possono” ribadiscono in assemblea –, e lasciando alle stesse la
possibilità di gestirli collettivamente. E allo stesso modo gli
innumerevoli immobili pubblici che Roma si appresta a svendere ai
privati, potrebbero restare pubblici ed essere gestiti collettivamente
per risolvere, o arginare, l’emergenza casa a Roma che sta generando un
esercito di nomadi del terzo millennio. Le istituzioni non rispondono,
ma queste pratiche stanno dimostrando che spesso al fallimento dei due
modelli di pubblico e privato occorre rispondere con una terza via:
quella dell’autogestione collettiva e dal basso.
Fonte
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