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Autori LietoColle: Stefano Re

Da Narcyso

Stefano Re, PER UNA SILOE PRIVATA, Lietocolle 2011

stefano re 3
Esordisce subito con una dichiarazione di poetica, o forse condivisibile in generale, su come sia fatto l’organismo della scrittura; su cosa bisognerebbe pretendere dalla poesia:“Non è la morte che mi spaventa/(…)Ma quello che nei versi non si dice,/che la parola non traduce,/quello che negli alibi notturni scuote,/il silenzio assenso che si rovescia/lento/nella mia precarietà”, p. 12.
Senso della scrittura, dunque, ma non in rapporto a sé, quanto, piuttosto, al tramite dell’esistenza. Il poeta, infatti, “scrive perché crede nella sacralità della parola e nella comunicazione come àncora di salvezza per l’umanità”, (nella nota).
Nel fare poesia si colloca l’esperienza del divino, la capacità di coglierne i segni – o la mancanza – anche nel minimo accadere o nelle complicate costruzioni che lo rivelano: “Mi riempi di tutto, mi sento/vuoto,/nemmeno il mare mi dona l’infinito (…)/forse i denti rivelano l’eterno/tra la polvere e la sabbia”, p. 14. Riconoscere i debiti davanti al Padre, ma solo se si comprende “il miracolo/d’essere figli”, p. 15. La poesia allora capisce che essa stessa può essere investita della gratuità del gesto, come gratuito è lo splendore delle Belledinotte: “perché darsi è un gesto silenzioso”, p. 16.
La poesia, insomma, dice, apprende e comprende. Ma anche, forse, ha la pretesa di insegnarci qualcosa che ancora non sappiamo, non comprendiamo. Questo perché la scrittura riflette l’immagine archetipica di un Bene, di un comandamento più grande di noi: dare un figlio, avere un padre. Non praticare l’amore come atto privato, ma pensare all’amore come “sacrificio per se stessi/e per l’amore, p. 17.
Oggi, forse, la poesia non comunica per una reale spezzatura; perché “non abbiamo l’infinito nelle corde,/non abbiamo il passo dell’attesa,/abbiamo il cuore in due unità,/ e il nostro intento”, p. 19.
Il cristianesimo di Stefano Re si apre a domande e dubbi, a verifiche sul campo, ad “atti d’assenso e d’intenti, p. 23. Osserva malinconicamente il passare del tempo, l’ignoranza dell’incedere di “uomini/in giacca e cravatta/e donne in gonna a festa/affaccendati per un incontro/come se tutto fosse fretta,/ignari che il tempo necessita/di tempo per trovarne il senso”, p. 24.
Invoca: “Cercami, fingi almeno di cercarmi,/e se è appassito il mio contorno/non turbarmi/con gli asserti del giudizio”, p. 25.
Questa dolorosa richiesta di senso al padre “Vorrei che mi abbracciassi/vorrei che il cielo fosse qui”, p.25, spesso si traduce nell’immagine del relitto: “Somiglio sempre più all’abbandono,/all’immagine relitto di mare”, p. 31. E, drammaticamente, a quella più crudele: annullarsi nella finzione del mondo.
Allora il rischio della parola che non dice più, dichiarato all’inizio, può diventare il proclama di una verità esposta tra le misere piaghe dell’umano: “Non ho voce per le parole,/ non ho che dislessia/non ho che te/se mi sorprende,/sussurrando appena,/la tua presenza”, p. 32.
La somiglianza riconosciuta col padre non è proclamata allo specchio come atto liberatorio di una spiritualità che assolva, ma come ricerca da mettere in atto del realizzare il proprio compimento nel miracolo d’essere figli.
Il battesimo non ci assolve dal peccato ma ci investe del compito del portare su noi stessi la condizione di tutti: per somiglianza appunto; accompagnare gli amici alle ultime porte chiedendo perdono per la nostra disaffezione e per il dono di un ultimo intimo bacio.

Sebastiano Aglieco

Qui  Qui  Qui

*
a M.A.

Nemmeno il tempo di dirti grazie,
sei andato dove il tempo non ha ritardi,
con i miei sigari chissà dove
quasi un presagio che tutto andasse in fumo
come l’ora dell’addio.
Sei andato come conviene
a chi non ha molte parole,
se non quelle essenziali tra il vero e l’esistenza,
del senso abbarbicato ai quattro angoli di tempo.

E c’è un momento in cui tutto si accende,
anche il buio che ottunde,
e la morte non è altro che passaggio
per dove l’uomo conferma la sua essenza.
Solo questo desidero che sia:
per te quell’attimo di Dio,
come labbra appese all’intimo di un bacio.

*

Come un fuoco si è riacceso l’abbaglio,
quello che passa al limite della vita,
si infila tra le ossa della persiana,
finché caduto il sole non resta
che il tempo esatto per il rialzo.

*

Batte la pioggia come il tempo l’ora
sull’asfalto dove insieme camminiamo,
trascinando io la tua indolenza,
tu piangendo
supplicando
che ti prenda in braccio.

E nella stanza che ovatta il respiro
mi chiedo quanti passi da solo dovrai fare,
quale stanchezza nel tuo piede
prima che la pioggia ne lavi l’esperienza.
Solo questo ti chiedo:
non avercela con me
se non ti ho preso in braccio,
l’amore è sacrificio per se stessi
e per l’amore.

*

Eccomi dentro l’abbraccio
che riempie di libertà la fuga
oltre il sipario dello sguardo o al di qua
dell’impronta che permette d’osservarmi.
Eccomi tra le pieghe del progetto
redatto su misura del mio nome
o tra le righe sconnesse del disegno,
cercando l’appiglio
il tratto
che riempia della tua
la mia continuità.


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