Mentre parlavamo, i sakura vorticavano intorno alla cabina del telefono in un diluvio di bianco e rosa. Avevo passato più di un mese circondato da quei fiori, più di quanto sia possibile, più di quanto sia naturale. E improvvisamente capii, con profondo sconforto, che quello che stavo facendo era sbagliato alla radice. I sakura sono fatti per essere transitori. Aggrapparsi a loro è come tentare di aggrapparsi alla giovinezza. Seguire il Fronte dei Fiori di Ciliegio era una negazione del tempo, delle stagioni, persino della mortalità. Era come spruzzare lacca su un giglio. Come imbalsamare un miraggio. Come cercare di fermare il tempo.
Will Ferguson, insegnante di inglese in Giappone, decide un po' per gioco di muoversi da Capo Sata a Capo Soya, rispettivamente estremità meridionale e punto più a nord del Giappone, per seguire la fioritura dei ciliegi. Per vivere appieno il paese, insieme ai giapponesi e non semplicemente in mezzo a loro, viaggerà in autostop, affidandosi alla gentilezza della gente.
Ferguson evita le grandi città, i luoghi che riempiono le pagine delle guide turistiche, e si dedica alla scoperta del Giappone rurale, delle cittadine di provincia in cui l'arrivo di un gaijin è evento da sussurrare da bocca a orecchio, in un passaparola infinito.
Tra una (dis)avventura e l'altra l'autore inserisce aneddoti storici, nozioni su cultura e tradizione, piccoli spunti da cui partire per approfondire la conoscenza del Sol Levante.
Il vero fulcro di Autostop con Buddha, però, sono i giapponesi con le loro idiosincrasie, i controsensi, gli impulsi opposti di diffidenza e gentilezza verso il prossimo, tanto più se straniero: sono loro, più che la loro terra, che l'autore mette sotto il microscopio e analizza con occhio ironico e lingua tagliente.
Grazie a una prosa fluida e scorrevole il suo racconto procede bene, di pagina in pagina, seguendo i sakura. Non aspettatevi troppa poesia, però: il freddo degli inverni canadesi ha temprato il cuore di Will e ne ha fatto un uomo pratico, poco dedito alle frasi romantiche e alle smancerie. I fiori sono più che altro un pretesto per partire, per osservare da vicino una realtà poco conosciuta, per venire a contatto con persone di tutti i tipi e fare incontri non sempre piacevoli.
Non risparmia nessuno, Ferguson. Ne ha per tutti con le sue battute sferzanti, a tratti esilaranti, altre volte non proprio di buon gusto. Secondo le sue stesse parole, essendo canadese ha "la possibilità di godere dei benefici materiali del rapporto di vicinato con gli Stati Uniti, ma nello stesso tempo" può permettersi "quell'atteggiamento altezzoso da persona perbene e moralmente superiore". Ecco, non che certi giudizi superficiali, certe volgarità gratuite si allontanino molto dallo stereotipo dello statunitense ignorante che crede di avere la verità in tasca. Il Ferguson migliore è quello che scherza su se stesso, che pareggia i conti mostrando che ognuno ha i suoi difetti, i giapponesi, i canadesi, e soprattutto le singole persone.
Il libro si apprezza prendendolo per quello che è: il resoconto assolutamente personale di un viaggio unico, irripetibile come ogni esperienza umana, vissuto da un individuo dotato di una sua particolare sensibilità, non necessariamente simile a quella del lettore. Non sognate attraverso le sue parole, non deprecatelo per certe osservazioni impietose sulla mentalità nipponica: fate le valige e scrivete da voi il vostro viaggio.
Voto: ★★★½/5