DARKTHRONE – Panzerfaust
Manolo Manco: A fare di quest’album un capolavoro bastano il riferimento bellico del titolo e il cupo artwork ritraente in controluce un blackster armato, pronto ad affrontare in solitudine i sentieri impervi della foresta norvegese, su cui si staglia una sinistra luna piena. Solo fermandoci alla presentazione esteriore del disco, recepiamo gli intenti guerreggianti e misantropici che il duo norvegese ha riversato in trentanove minuti di musica. In Panzerfaust c’è una piccola svolta musicale, che poi verrà portata a compimento nell’album successivo, rispetto al precedente Transilvanian Hunger, vero paradigma del riffing monotono e atmosferico del trve black metal anni ’90. Qui comincia il percorso archeologico di Fenriz, che prosegue ancora oggi e che nel ’94-’95 lo portò a recuperare l’influenza di uno dei suoi grandi amori musicali di sempre, i Celtic Frost (dichiarò che all’epoca dovette stampare da sé le maglie dei Celtic Frost, perché nessuno li prendeva in considerazione), incorporandolo nel tipico necro sound darkthroniano. Una rasoiata di livido ribrezzo per il resto dell’umanità, con la collaborazione (ultima in carriera) di Varg Vikernes in Quintessence.
BLACK SABBATH – Forbidden
Ciccio Russo: Tramontata subito la rimpatriata lampo con Dio, Butler e Appice che aveva fruttato il notevole Dehumanizer, Iommi si riprende Tony Martin e tira fuori il non disprezzabile Cross Purposes. Senza nessun motivo plausibile, e recuperato nel frattempo anche Cozy Powell, un iron man non al massimo dell’ispirazione e della lucidità, come la stanca mietitrice in copertina, avverte l’esigenza di pubblicare l’anno immediatamente successivo un altro disco, ritenuto più o meno all’unanimità il più brutto dei Black Sabbath insieme a Never Say Die. L’unica canzone che mi viene da riascoltare ogni tanto è The Illusion Of Power, quella dove a un certo punto appare Ice-T (all’epoca attivo con il progetto metallaro Body Count, di recente resuscitati) che rappa e l’esperimento, sa Satana come, funziona pure. Gli altri pezzi accentuano la vena hard rock, se non addirittura class metal, che era presente già in alcuni precedenti lavori con Martin e suonano troppo leggerini, forse nel tentativo di essere vagamente commerciali; non c’è quasi l’atmosfera oscura dei Sabbath, e nemmeno la vena epica che avevano sviluppato negli anni ’80. Due anni dopo ci sarà la reunion con Ozzy e Geezer Butler.
PARADISE LOST – Draconian Times
Stefano Greco: Draconian Times forse è uno degli ultimi grandi dischi che l’heavy metal mainstream abbia tirato fuori e segna la fine del discorso iniziato con i Metallica del black album di un metallo appetibile per le masse. Non è un album innovativo, non è estremo né contaminato, non ha senso andare ad analizzarlo per queste varie componenti. Non rappresenta in alcun modo una sfida per l’ascoltatore, è un disco che non chiede nulla ma dà tantissimo. La sua forza è esclusivamente nei brani che lo compongono, ad un primo lato pieno di potenziali singoli (alcuni cafonissimi, quindi imprescindibili), segue una seconda parte meno immediata ma più intensa e viscerale. E’ uno di quei pochi album che nonostante abbia ascoltato un milione di volte riesce ancora a comunicarmi qualcosa. Sì, i figli so’ piezz’e core ma pure gli album mica scherzano. Disco della vita.
Charles: L’imprinting filiale è una cosa importantissima negli animali e lo è anche per noi metallari, che alla categoria possiamo dire di appartenere di diritto. Nel mio caso, per esempio, è andata così: ai Paradise Lost sono arrivato solo nel ’97, un po’ tardi; in quell’anno uscì One Second. Non ancora superata la coda del periodo tardo-darkettone, la gente che frequentavo mi diceva che One Second era questo e quello… Non appartengo, dunque, alla categoria degli scandalizzati per il ‘tradimento’ con le sonorità gothic (e poi, voglio essere sincero fino alla fine, di Holmes ho sempre preferito la voce pulita a quella hetfieldiana). Ascoltando il prima e il dopo, non disponendo delle opportune categorie di giudizio, non sapevo bene cosa pensare degli inglesi e comunque li ho sempre trovati abbastanza enigmatici, anche rispetto agli altri due componenti la ‘trimurti del doom britannico’. Che genere facevano? Dove volevano andare a parare? Il secondo dilemma non l’ho ancora risolto. Principalmente per questi motivi Draconian Times non rientra tra i miei dischi preferiti e oggi, se mi vien voglia di ripercorrere le orme dei Paradise Lost, privilegio Lost Paradise e Gothic, gli album ‘prima epoca’ che preferisco.
NOCTURNAL RITES – In A Time Of Blood And Fire
Cesare Carrozzi: In pratica un gruppo svedese nato come black metal che ha cambiato forma fino a debuttare nel 1995 con questo In A Time Of Blood And Fire, distillato di puro power metal dalla prima all’ultima nota. Di tipicamente black gli era rimasto solo il logo, che cambiarono già dal successivo Tales Of Mistery And Imagination. Non erano male, anche se credo che proprio Tales Of Mistery And Imagination sia il mio preferito della loro discografia. Qui sono acerbi assai, godibili ma non eccessivamente graffianti, anche se qualche bella zampata la tirano già, tipo Skyline Flame e Winds Of Death. Particolare ma gradevole la voce di Anders Zackrisson, cantante dei primi tre dischi, nasale ma efficace. Se vi piace il genere, un ascolto dateglielo pure, che vent’anni dopo è godibile ora come allora.
SHADOW GALLERY – Carved In Stone
Charles: Gli Shadow Gallery erano nerd before it was cool. In fissa per le opere di Alan Moore e il mondo fantasy, sono stati anche uno dei migliori gruppi di progressive metal melodico del mondo. I primi cinque dischi sono uno più bello dell’altro e beccare una sequenza del genere è consentito solo ai grandi. Carved in Stone è un disco semplicemente stupendo, se non lo capite siete delle persone assai brutte. Non è il disco migliore degli statunitensi, quello, da un punto di vista strettamente cerebrale, sarà Tyranny; in questo prevale la componente emozionale del ragazzino che dedicava il chorus di Crystalline Dream alle sue fidanzate immaginarie e che alle doppiette fulminanti tra chitarre e tastiere (roba da far impallidire anche i migliori Stratovarius) anteponeva la melodia delle ballate tutte miele e canditi. Mike Baker, una delle voci ‘prog’ che ho amato più in assoluto, insieme all’Eduard Hovinga degli Elegy, fece anche un duetto spettacolare con Devin Townsend in un brano di Human Equation degli Ayreon. Cose di un altro livello e di un altro mondo, che oggi non possiamo che piangere e disperarci. Dopo la sua prematura scomparsa, per un attacco cardiaco nel 2008, la band ha iniziato a fare concerti dal vivo (opzione mai contemplata fino a quel momento) e ha prodotto un altro disco, Digital Ghosts, che mi sono sempre rifiutato di ascoltare.
SODOM – Masquerade In Blood
Il Messicano: Questo è un mediocre/quasi decente disco dei Sodom uscito vent’anni fa. Non mi dilungo oltre, perché con i Sodom ci sono cresciuto e quindi basta così. Volevo raccontare qualcosa di carino, ma qui lo spazio a disposizione è poco e allora niente (i tizi abbrancati da Knarrenheinz in copertina sono l’allora cancelliere di Germania Helmut Kohl e Boris Eltsin, ndCiccio).
RAMONES –Adios Amigos
Stefano Greco: La cover di I Dont’t Wanna Grow Up di Tom Waits piazzata in apertura è probabilmente uno dei vertici della cultura occidentale di ogni tempo. Per il resto non lo risento da circa un millennio e in realtà l’unica immagine che mi viene in mente pensando ad Adios Amigos è il biglietto per il concerto dei Ramones nel cassetto di destra della mia scrivania. L’avevo comprato con enorme anticipo e ogni tanto aprivo la cartellina in cui era riposto e me lo guardavo, pregustando il momento in cui avrei ascoltato una lunga serie di “one, two three, four”. A circa dieci giorni dalla data esce fuori la notizia dell’annullamento di parte del tour per imprecisati problemi di salute del cantante. Non ci sarà mai modo di recuperare. Qualche mese dopo a Joey Ramone viene diagnosticato un linfoma. Segue una lunga malattia che se lo porterà via nel 2001. Che mondo di merda.
FUGAZI – Red Medicine
Manolo Manco: Successo commerciale (per essere un disco pubblicato su una delle poche label che possono fregiarsi realmente dell’aggettivo indipendente, la Dischord Records) e di critica, è l’album in cui i Fugazi decidono di inserire stravaganze sonore nel loro già originalissimo suono. E’ come se il free jazz o il kraut rock (mi riferisco non tanto alle sonorità, quanto alle idee di libertà espressiva posta a fondamento di tali generi) incontrassero il post hardcore. La produzione questa volta segue binari meno irruenti e più sofisticati, mentre permangono il senso di alienazione dal mainstream e il desiderio di riscatto dallo stesso mediante gli strumenti del DIY. La classe sopraffina dei Fugazi è ormai filtrata da un sottile sense of humour degli ormai ultratrentenni MacKaye e soci, che emerge di tanto in tanto.
IN THE WOODS… Hearth Of The Ages
Piero Tola: Un prodotto in ogni senso fuori dalla norma in un momento nel quale eravamo tutti a caccia dell’uscita discografica più maligna e della black metal band più pagana/satanica/misantropica. In quei giorni un altro dei miei principali ascolti era Bergtatt degli Ulver, che in quanto a magia evocativa faceva concorrenza alla gloriosa release di cui si parla qua. Chi era reduce dall’ascolto del mitico demo The Isle of Man avrà potuto comprendere appieno l’evoluzione stilistica in atto a quei tempi, ma per me Heart Of The Ages fera il primo approccio con la band norvegese, che con questo disco è in grado di ammaliare l’ascoltatore anche a vent’anni di distanza. Vi sfido a non commuovervi ascoltando le note luttuose di Mourning The Death of Aase, con un’incantevole voce femminile a struggersi. Un album che porta alla mente immagini indelebili che mi hanno accompagnato in vari momenti della vita e ancora oggi quando inserisco ‘sto dischetto all’interno del lettore mi è molto difficile toglierlo.
AMORPHIS – Black Winter Day
Charles: In verità questo piccolo e splendido EP è uscito nel gennaio ’95. Ero indeciso ma alla fine ho pensato valesse la pena parlarne. Black Winter Day, che trae il nome dall’omonimo brano già contenuto nell’immenso Tales From the Thousand Lakes, rappresenta un momento di passaggio fondamentale per i finlandesi: è l’ultima produzione con Kasper Mårtenson alle tastiere e Tomi Koivusaari alla voce (in seguito si limiterà ad affiancare Pasi Koskinen nelle parti in growl). In quei due si identificava il marchio degli Amorphis prima epoca: grezzo, semplice, sporco ma dannatamente evocativo. L’EP contiene tre imperdibili brani inediti che rappresentano la continuazione logica di 1000 Lakes. Dopo verrà Elegy e tutto sarà diverso. Migliore? Chissà. C’è da dire che all’epoca (e fino a Tuonela incluso) gli Amorphis erano veramente spettacolari.