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“Avevo dato io il nome ad ogni oggetto della stanza” di Maura Gancitano

Da Pupidizuccaro
Shadowplay di Paolo Castronovo

Shadowplay (c) by Paolo Castronovo

Avevo dato io il nome ad ogni oggetto della stanza, è sempre stata una mania. Quando sono arrivata ho ritrovato tutto, ma ho voluto rimanere un po’ sulla soglia, col trench addosso e la borsa tra le mani. Lui mi ha richiuso la porta alle spalle e il soffio rassicurante della luce pomeridiana è scivolato via.

Allora ho abbandonato il trench su una sedia e mi sono seduta su quella che stava accanto alla scrivania, e lui ha aperto la finestra. Percorreva la stanza cercando tracce femminili da nascondere, lamentandosi per i troppi libri, a giustificare gli anni fuori corso. Li conoscevo a memoria.

Lui mi presentava ogni cosa come la stessi vedendo per la prima volta, continuava a cercare tracce femminili da nascondere, ma sapevo che non avrebbe trovato nulla. Dovevo essere io a vergognarmi, per aver arricciato le dita dei piedi sotto le coperte, di notte, ovunque, senza sforzo. In quella stanza non c’erano che oggetti, ciascuno col proprio nome.

Il suo odore era diverso, doveva aver cambiato dentifricio, me ne accorgevo mentre si muoveva di fronte a me, metteva ordine, mi raccontava storie. L’amore con lui sarebbe stata una cosa vecchia, non sarei mai venuta su quelle lenzuola impolverate. Aveva ancora dita tozze, doveva essere ancora convinto di poterci fare tutto.Preparò del cibo, con un ridicolo grembiule addosso. Non si ricordava neanche che io detestavo mangiare prima di aver scopato. Usava il mio nome con imbarazzo, non c’era più abituato. Diceva piano “Chiara”, e poi mi guardava, come se fosse una qualità.

Mi confessava le sue debolezze, ma io le conoscevo già. Ogni volta che mi diceva una parola mi tornava in mente la parola successiva, ma lui non se ne accorgeva. Voleva che io sapessi chi era, che lo sapessi io e nessun altro, ma io lo sapevo già. Parlavo poco, lui non si fermava, non ricordavo quel modo di toccare le cose, di sparecchiare, di lavare i piatti, di liberarsi del grembiule. Mi veniva in mente che era tenero, una parola che non usavo più.

Quando mi tolse la tazzina dalle mani non ero preparata, il caffé cadde a terra. Giacomo sembrava riconoscermi solo allora, e io mi dimenticavo di conoscerlo già. Con un gesto tutto suo chiudeva la finestra e non accendeva la luce. Si toglieva via i vestiti come tutti, senza guardarsi, e il suo corpo quasi nudo era prevedibile, ma non aveva mai saputo così tanto di pelle, di peli, di melanina.

Ma c’era attrito, era tutto secco e duro, le mie braccia e le mie gambe non erano all’altezza, avevo ancora in bocca il sapore del caffé, di quello che avevo mangiato, la pelle nuda litigava con le lenzuola vecchie, fui io a chiedere di accendere la luce.

Non me la ricordavo di quel colore la lampada sul comodino, ma lui non mi diede alcuna spiegazione, mi guardava. Prima non lo faceva così, prima mi guardava come se fossi importante, quasi come se fossi bella, adesso aveva il sorriso pieno di mia madre. Non potevo sopportarlo, ma non gli chiesi di spegnere la luce. Gli presi le mani e, con uno sguardo da film americano, lo invitai a toccarmi di nuovo, e al centro di me sentii qualcosa che si apriva e gonfiava e ammorbidiva.

Chiudendo gli occhi vedevo Giacomo da piccolo, giocava in calzoncini corti, si lasciava cadere esausto su una montagna di cuscini, si tuffava in mare, sbatteva le mani piccole contro l’acqua, leggeva fumetti, mangiava pomodori e ciliegie, ma forse non era lui.

Riaprendoli, lo vedevo affamarsi, entrava felice, affannato, lo guardavo come forse aveva fatto solo sua madre, come io non avevo mai fatto.

Sentivo in bocca una freschezza salata, sapeva di pelle, era Giacomo, e io lasciavo addosso a lui il mio odore di mani, forte come aria, zuccherino, lattiginoso.

Lui andava piano, come una voce dolce, come parole semplici, come le rime delle filastrocche, come gocce di pioggia sulla mano, una collana di perline, un bicchiere di latte prima di andare a dormire, una pennichella estiva.

Non lo prevedevo più, lo abbracciavo, attaccavo il mio orecchio al suo orecchio, il mio collo al suo collo, sorridevo e lo imbevevo di me. Anche il letto si riempiva di zucchero, la luce della lampada ci accompagnava, col suo colore nuovo. Ripeteva il mio nome come una qualità. Non sapevo si potesse fare così.

Se mi fossero tornate in mente tutte le volte in cui le dita dei miei piedi si erano arricciate, le gambe spalancate quasi a spezzarsi, mi sarei accorta improvvisamente che quella manciata di secondi non sarebbe bastata, ma in quei momenti non ricordavo neanche più che c’era stato un tempo in cui il suo odore mi aveva stancato, mentre ora mi teneva ancorata alla terra, a benedire la stanza. La guardavo adesso come se dovessi dare un nuovo nome ad ogni oggetto.

Alla fine, quando mi ha versato la bocca sul petto, lui ha detto la frase più banale di tutte, la domanda che non mi aspettavo, quella che fanno gli sciocchi, quelli che vogliono colpire, quelli dei film americani, solo allora mi ha aperto gli occhi, e ho smesso di inventare nomi per cose che non conoscevo.

Sollevando la sua bocca dal mio petto ha detto: “Perché non t’ho incontrata prima?”

Il racconto è già stato pubblicato su Sinestetica,
il sito della scrittrice e traduttrice Gaja Cenciarelli


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