Ci sono donne che sono sveglie e donne che no. Io sono una donna che no. E lo sguardo scemo lo testimonia. Sono una femmina tonta, un arnese fatto male, sono quella che sbatte con l’alluce sullo spigolo dei mobili, quella che tira la porta invece di spingerla, quella che le dicono vai a destra e gira a sinistra. Tutti questi, sommati, sono inequivocabili segnali di idiozia.
Se alla cretineria aggiungete la mia vocazione al groupismo, avrete l’immagine di me che varco la soglia di un edificio storico, storicissimo, col cuore che batte forte e un pensiero fisso: «Cazzo, ho scordato di mettere il deodorante». Volete mettere l’imbarazzo dell’alone di sudore sotto le ascelle? Vi immaginate finire a braccia alzate – non si sa mai, può capitare di tutto quando sei uscita senza mettere il deodorante – e averci le mosche morenti attorno? Figurarsi se, che ne so, Lilli Gruber gira senza deodorante. Insomma, ero là, coi piedi su un tappeto col nome di un editore gigantesco, e mentre mi avvicinavo alla reception tentando di apparire disinvolta mi domandavo se puzzassi, e – in caso di risposta affermativa – quanto.
«Salve, ho appuntamento con Il vice», ho detto io, arrivata al bancone, fingendo sicurezza, abitudine, spontaneità.
«Lei si chiama?», mi ha risposto una tizia, tutta presa dal ruolo che il tappeto con quel nome le imponeva.
«Ehm, LaCapa»
«Documento»
«Come scusi?»
«Mi dia un documento»
Un documento. Panico. Ho preso il portafogli e il panico si è trasformato in sudore freddo (sempre senza deodorante che faccia «altolà»). Io quelli che chiedono i documenti li immagino sempre aspettare il momento giusto per ridere tra sé dell’orrore delle fototessere. Qualcosa tipo: «Ma l’hai vista quant’è brutta questa? Che ci vuole fare una così brutta, con quegli occhi così tonti, in un posto con quel nome sul tappeto?». Niente carta d’identità, troppo brutta. E allora patente. La cercavo, non la trovavo. L’avevo lasciata chissà dove, chissà in quale cambio di borsa. C’era solo lui: il mio tesserino da giornalista pubblicista. «Brava LaCapa – mi sono complimentata tra me e me – trasudi provincialismo, e assenza di igiene, da tutti i pori: arrivi e consegni cosa? Il tesserino, giusto per fare la sborona, giusto per sottolineare che ce l’hai, come a dire: “Ho una brutta foto nella carta d’identità, ma sono iscritta all’albo”».
La tizia tutta presa dal suo ruolo ha recuperato il mio tesserino, mi ha guardata con fastidio e mi ha dato un badge magnetico: «Deve poggiarlo sul sensore per superare i tornelli. Il vice è al primo piano sulla destra». L’ho ringraziata, ho preso il badge e sono arrivata davanti ai tornelli. Passo il badge, s’illumina una lucina: rossa. Ripasso il badge, luce ancora rossa. Terzo tentativo, niente da fare. «Vabbè, signorina, le apro da qua, eh», fa la tizia tutta presa dal suo ruolo. Io bestemmio, la luce verde si accende, faccio qualche passo, supero una porta di legno e comincio a salire una scalinata. Una di quelle scalinate belle, con il corrimano di legno, la ringhiera di ferro, il marmo, i lampadari in alto e le foto incorniciate alle pareti.
Una donna piccolina e sorridente mi viene incontro: «LaCapa? – mi chiede e, senza aspettare conferma, continua – Il vice è impegnato, al momento. Posso chiederle, per piacere, di aspettare nella Stanza?». La Stanza merita la maiuscola. L’avevo sentita nominare ma non è che sperassi di entrarci mai dentro. Con tutte le sue sedie e le sue lampade e la sua storia e le sue due targhe, una accanto all’altra. Le prime pagine attaccate alle pareti, quelle di quando l’uomo è sbarcato sulla Luna, di quando Marilyn Monroe s’è uccisa e di quando J. F. Kennedy è stato ammazzato. C’erano un paio di menabò del giorno dopo e le sedie tutte fuori posto. Poi un planisfero ingiallito con l’aria di essere lì da un bel po’ pure lui, proprio come l’edificio e come il giornale.
Leggevo titoli ed editoriali, nomi di autori e date appartenenti a un mondo che ho scoperto sui libri di storia. Pensavo che era tutto bellissimo, che avevo un groppo alla gola e che ero piccolissima. Il deodorante non era un problema, perché tanto ero raggelata: ma che ci facevo io là dentro? Ma lo sapevano, quelli che mi ci hanno chiamata, che io sbaglio tutte le consecutio temporum? E che quando sono lontana dalla mia città non riesco a completare le frasi senza usare parole in dialetto? E che non sono laureata? Lo sapevano, loro, che non mi sono ancora laureata perché sono troppo pigra per presentarmi agli esami e troppo sfortunata per riuscire a farli senza avere voli da prendere? No, dico, erano informati Il vice e quegli altri a cui stavo simpatica là dentro che una volta su Facebook ho scritto «beneficienza» proprio in quel modo lì, con la «i»? Che le chiamano a fare le persone come me, in posti con quei tappeti all’ingresso, se non si informano prima di quanti pezzi hai bruciato, di quanti articoli hai scritto troppo lentamente e di quanti insulti hai preso senza saperti difendere?
Nella Stanza ero sola e mi sentivo inadeguata. C’era questa prima pagina con il titolone sull’attentato a Giovanni Paolo II e io dovevo scegliere dove sedermi nell’attesa. Invece ero là, imbambolata, in piedi e imbarazzata. Pensavo che se fosse passato qualcuno e mi avesse vista avrebbe pensato che io fossi una cretina, eppure non riuscivo a risolvermi. Non sapevo prendere una posizione, non ero in grado nemmeno di decidere che sedia usare. Come se il mio volgare deretano del profondo Sud non fosse abbastanza per poggiarsi là, dove ben più nobili deretani si sono poggiati nel tempo. Allora niente. Sono rimasta dritta dov’ero, a leggere in continuazione il titolone sull’attentato a Giovanni Paolo II. E a chiedermi chissà quant’è bello scrivere la storia.
La donna piccolina e sorridente è tornata a prendermi. Nella borsa avevo già rimesso il cellulare, quello con cui avevo fatto una foto a quel posto. Giusto perché alle provinciali del profondo Sud come me piace fare così. Giusto perché altrimenti avrei rischiato di scordarmi com’era fatta la Stanza. Giusto perché alzando le braccia per fare una foto dritta ho verificato che no, non avevo ancora le ascelle pezzate, per fortuna.