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Banditi a Partinico

Creato il 19 settembre 2011 da Casarrubea

Lettera aperta a Danilo Dolci 

 

Banditi a Partinico: il Far-West dei neocolombiani

           Danilo Dolci e Peppino Impastato

 

Caro Danilo,

ti scrivo perché so che tu mi ascolti e sai cosa voglio dirti, e quanta fatica abbiamo fatto per capire cosa sia la mafia e come possiamo sognare il  cambiamento. Sai anche cosa penso,  in questo tempo che si è fatto oscuro, triste e privo di colori. 

All’improvviso mi ritrovo come sperduto in un sentiero che non è più quello che tu hai costruito. Quello che avevi indicato come via maestra della lotta contro violenza, spargimento di sangue,   gangsterismo, e altri fenomeni che neanche tu riuscivi a spiegarti. Sapevi che tutto ha una sua un’origine e che la povertà non è la causa dei nostri mali. Avevi ragione. Ci sei vissuto dentro la povertà e, tra i primi, hai capito che ha cause antiche e che è il potere dei forti a determinarla. 

 Ricordi che ti presero per pazzo, quando ti presentasti alla Commissione parlamentare antimafia, nel 1963 e, primo in assoluto, facesti i nomi dei mafiosi locali. Quelli che mettevano le mani sugli appalti, che gestivano l’acqua, che non volevano la diga.

 E’ di questo che voglio parlarti perché nella tua lotta contro questo male antico della nostra terra, che tu hai amato fino alla fine, non avevi avuto precursori, tranne i sindacalisti ammazzati che tu hai preso come tue guide. Eri solo, quando Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano ancora ragazzi che studiavano. Li hai anticipato di parecchi decenni.

Come loro, e prima di loro, hai pensato che la conoscenza deve produrre azione, fatti, trasformazioni nella società e negli uomini, il cambiamento del senso comune dei cittadini e  del potere. Quante volte ce l’hai ripetuto, tu che eri attaccato all’etimologia delle parole, alla loro storia? In latino – dicevi – potere significa possum, un diritto di azione responsabile che a nessun essere umano può essere tolto. Ma ti riferivi anche a quelli che vedevi come il potere deviato, gli dei delle zecche e che spesso agivano contro il non potere dei poveri cristi. 

Hai fatto tutto per questo scopo e sei morto come avevi scritto: “Vivi in modo che in qualsiasi momento muori o t’ammazzano, muori contento”.

 Ti ho osservato bene quella notte d’inverno della fine del 1997, nella tua piccola casetta di Borgo di Dio. C’era un camino spento e su alcune mensole i ricordi dei tuoi innumerevoli viaggi nel mondo. Attorno a te c’erano i tuoi figli, i tuoi compagni, i tuoi amici, il procuratore della Repubblica di Palermo Giancarlo Caselli, molti altri. Osservavo il tuo volto sereno e vedevo che sorridevi mentre tenevi gli occhi chiusi. Eri felice, sul lettino di morte al centro della tua casa, dove qualche volta mi avevi invitato a pranzo o a cena. Prima ancora che nascesse il Centro Studi di Borgo Trappeto che tu avevi chiamato “di Dio”. C’erano i bungalow allora sul terreno che avevi comprato con i soldi che ti aveva dato il tuo amico Elio Vittorini, e ricordo i temporali estivi sotto i tetti di tavole e canne mentre regnava il silenzio più assoluto.

 Avevi fatto di tutto per i più abbandonati, per i senza voce, per quelli che quando volevano protestare, altro non sapevano fare che fumare una sigaretta, o prendersela con il mulo o con la moglie.

Parlando con i contadini avevi concepito già negli anni Cinquanta, poco dopo il tuo arrivo, l’idea che la vera ricchezza della nostra terra è l’acqua. Ma l’acqua si perdeva a mare o finiva sotto gli zoccoli dei cavalli. A Camporeale, il paese del boss Vanni Sacco, come a Partinico. Qui imperversava Frank Coppola, alias “Frank Tre dita”, il boss pistolero partinicese che si era formato alla scuola della mafia gangsteristica americana, e che nel 1948 era tornato in Italia e nella sua Partinico a fare il nababbo, per poi diventare “re di Pomezia” e tessere rapporti epistolari con quel Santi Savarino, suo compaesano, al quale è stato intestato un liceo scientifico, con la compiacenza di tutti. Caro Danilo, cosa vuoi che esca dalle scuole di Partinico?

Banditi a Partinico: il Far-West dei neocolombiani

Dolci tra gli scioperanti (foto Archivio Casarrubea)

 Ora quello che hai realizzato è stato distrutto, vandalizzato, ridotto a niente: la gestione democratica della diga, la scuola di Mirto, il  Borgo di Dio, il tuo studio di palazzo Scalia. Solo il tuo pensiero non hanno potuto distruggere, e la memoria della tua singolare azione di intellettuale impegnato, e di maestro delle nuove generazioni. Tu che eri amico di Lamberto Borghi, Ernesto Codignola, Aldo Visalberghi, Carlo Levi, Giorgio La Pira, Bruno Zevi, Ernesto Treccani, Lucio Lombardo Radice, Maria Fermi, la sorella di Enrico, Paulo Freire e tanti altri.

Il tuo assillo era quello di don Milani: dare la parola a chi non ha voce, turbare la cattiva coscienza dei perbenisti, educare alla resistenza perché vince chi resiste alla nausea.

Ti vedo ancora a Palazzo Scalia, alle riunioni che tenevi per la costruzione della diga. Era appena l’inizio degli anni ’60. Ognuno diceva la sua, e tu ti limitavi a dire poche cose, sempre le stesse, come il Vangelo o come don Zeno a Nomadelfia, dove avevi fatto le tue prime esperienze comunitarie. Ogni cosa cresce solo se sognata, dicevi. E così ci sono voluti dieci anni di studi e di fatiche perché finalmente si arrivasse all’idea concreta, tecnicamente perfetta e puntualmente seguita, di far nascere a Partinico qualcosa che prima non c’era: la diga, l’invaso Poma sul fiume Jato.  La tua più grande opera creativa ed educativa.

 Ora non c’è più quella realtà. I nuovi signori dell’acqua, a pensarci bene, caro Danilo, non fanno pagare l’acqua per creare una collusione. Nessuno protesta. E chiunque si attacca a una bocchetta di erogazione, tira tutta l’acqua che gli pare a sbafo. Ci sono poi quelli che rompono le tubature e deviano l’acqua in certe campagne. Questo bene prezioso è tornato a scorrere a fiumi per le strade perdendosi a mare. Come alla fine degli anni Cinquanta, come ai tempi di Vanni Sacco e “Frank Tre dita”.  Uno sfregio a un’intera popolazione. Mafia, padroni e qualcuno che pare abbia interesse a creare il pantano sociale, posto in alto loco e ben protetto, sono tornati a formare una santissima trinità, come il padre, il figlio e lo spirito santo. Hanno istituzionalizzato il malaffare. Nel mezzo c’è il Far West. Con il silenzio e il folle ridacchiare degli amministratori locali che fingono di ignorare il problema, o per deficienza propria lo sconoscono completamente.

 L’ultimo morto ammazzato, produttore di mariuana , è stato sparato prima che cominciasse la notte bianca in questo mese. Un giovane. E’ rimasto nel piazzale di casa sua senza che nessuno lo vedesse dalle dieci del mattino alla sera, mentre, seguendo il programma di questa incosciente “notte”, l’assessore Bartolo Parrino faceva sparare dagli innumerevoli palchetti musicali appositamente costruiti per la festa, musiche e spettacoli di tutti i generi. Con distribuzione di cassatelle e panini imbottiti. Quant’è costata questa estate partinicese? E quanto ha speso l’assessore per cultura, scuola, istituzione di un archivio della memoria di questo paese disperato e acefalo?

 Negli ultimi anni si sono avuti a Partinico otto morti ammazzati per mafia, uno assassinato per droga, due lupare bianche, un attentato di mafia, non riuscito  contro il boss di Borgetto Nicolò Salto, ritenuto capo mandamento di Borgetto e Partinico, braccio destro dei Raccuglia.

E’ una guerra di mafia ancora aperta tra Domenico Raccuglia, il suo braccio destro Salto, appunto, Vito e Leonardo Vitale, da un lato e Antonio e Francesco Nania, Ciccio Rappa e la famiglia Giambrone dall’altro. Bilancio, sette morti ammazzati. E la guerra continua. All’antica.

Aggiungi centinaia di macchine incendiate. L’ultima, un furgone Ford Transit, mandato al rogo alle ore 22,30 del 17 settembre 2011.

Dal 2005 si sono avute le seguenti operazioni repressive: Carthago, con l’arresto di 27 persone; The End, con 23 arresti, il processo Rappa + 27, le operazioni Terra bruciata con 21 arresti, Araba Fenice, Benny Valenza che aveva avuto addirittura l’appalto di costruire un edificio della PS. Naturalmente  stava eseguendo i lavori con cemento depotenziato. Da aggiungere tonnellate di mariuana sequestrata o prodotta sul campo, su terreni un tempo dedicati a una sana agricoltura, e un’infinità di piccole azioni delle forze dell’ordine.

 Caro Danilo, capisci bene che quella che stiamo vivendo è una realtà allo sfascio in cui la violenza la fa da signora, mentre noi vorremmo un paese socialmente e culturalmente sviluppato,  con scuole che funzionano, che costruiscono uomini capaci di leggere ciò che accade e si organizzano per il cambiamento civile della società e dei poteri pubblici. Restando inerti, sono privi di ogni speranza.

Lo so che ti chiedi in mano a chi siamo. Forse tu potresti dirlo, ora che guardi le cose da molto in alto. Ma noi qui, immersi in questa nostra resistenza contro i fantasmi del passato, il Medioevo che incombe (senza offesa per quella civiltà), non sappiamo cosa accade. Cerca di spiegarcelo ogni santo giorno il caro e simpatico Pino Maniaci con la sua povera Telejato. Una pattuglia all’assalto come nella battaglia delle Termopili.  Ma entro alcuni mesi neanche questa voce avremo più perché l’ordine del nuovo impero, molto più incivile e arcaico di quello dell’antica Roma, o della Grecia che sono la culla della civiltà europea, vuole mettergli la mordacchia. A questa emittente e ad altre centinaia di tv private che non hanno i mezzi per adeguarsi alle tecniche imposte dal digitale terrestre.

Che faresti tu che sei stato il primo in Italia a trasmettere il 25 marzo 1970, dalla tua Radio Libera, la radio dei poveri cristi, le tristi condizioni in cui versavano le popolazioni del Belice, dello Jato e del Carboi, dopo il terremoto che distrusse mezza Sicilia?

Io una risposta ce l’ho e la ricavo da quello che tu ci hai insegnato: la legge come regola non esiste, perché prima di tutto e di chiunque, viene la coscienza dell’uomo, la sua libertà costituzionale, il suo diritto ad esistere e ad essere informato. Non manipolato.

In ultimo ti devo dire delle cose che sai. Questo è il paese di Frank Coppola, di Santo Fleres, capiscuola di una mafia politica e affaristica, basata sui traffici di droga e sui legami con Roma.  Questa è terra che anche i capimafia del calibro di Matteo Messina Denaro e Totò Riina trattano con le pinze. Perché qua non si media, si spara. Qua i veri patriarchi  muoiono nel loro letto, come capitò a don Calò Vizzini, di Villalba. Non gli piacevano quelli che ce l’avevano con lui. Chiamava i suoi sgherri e gli faceva ammazzare. Cosa che capitò a Girolamo Li Causi e a Michele Pantaleone, mentre facevano un comizio per il Pci, nel 1944. Un cenno del capo di don Calò e partirono le fucilate degli sgherri.

Una terra alla don Calò, dove sono nati e cresciuti Nené Geraci, membro autorevole della cupola, morto in età avanzata nel suo letto; Giovanni Bonomo, anche lui morto nel suo letto, nonostante ricercato, i Nania che meriterebbero, pure loro, di morire fra cent’anni nel loro letto, come si addice alla tradizione dei loro predecessori. Ma quelli che abbiamo menzionato sono i vecchi, la generazione passata.

Caro Danilo, è la nuova generazione di mafiosi e malandrini che mi preoccupa di più, quella che non conosciamo, in quest’area 51 del Nevada, dove avvengono fenomeni strani,  inaccessibili persino al governo statunitense. Un’area  top secret che pure essendo collocata in provincia di Palermo è di fatto situata vicino al villaggio di Rachel,  a nord-ovest di Las Vegas. Sotto il controllo dell’Aeronautica militare e dei Servizi di Intelligence.

Questo non è il paese di Messina Denaro, ma di Pablo Escobar,  l’organizzatore del Cartello di Meddellin, una pericolosa organizzazione di narcotrafficanti dell’omonima città,  attiva negli anni ’70 e ’80. Coniuga i due versanti dell’impenetrabilità  e della autonomia. Alla fine arrivano i baroni, i nuovi signori che siedono nel nobile Parlamento siculo. Si spartiscono il territorio, i clienti e i capiclienti, le famiglie e i quartieri. E, in una notte, non bianca, decidono i risultati elettorali.

Danilo, tu che faresti oggi?

Giuseppe Casarrubea


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