- Bankitalia
BANKITALIA, UNA STORIA DI ORDINARIA MASSONERIA
di Francesco Filini
Antonio Patuelli, Presidente dell’ABI (Associazione delle Banche Italiane) ha
Antonio Patuelli
chiesto di rivedere la legge 262 del 2005 voluta dall’allora Ministro dell’economia Giulio Tremonti che nel paragrafo 19, comma 10, riformula l’assetto proprietario della Banca d’Italia, disciplinando che entro i tre anni successivi dall’approvazione della legge (ovvero entro il 2008) doveva avvenire il trasferimento delle quote di partecipazione dei privati verso lo Stato. In poche parole la legge Tremonti aveva disposto che la proprietà della Banca d’Italia divenisse pubblica (come la logica vorrebbe) e non privata. Questa legge, che doveva diventare esecutiva ben 5 anni fa, non è stata minimamente presa in considerazione dagli istituti che ancora oggi detengono la maggioranza delle azioni. E’ sufficiente una piccola verifica per vedere come banche commerciali, assicurazioni e istituti di credito privati ancora oggi detengano il 94,5% della proprietà dell’Istituto di emissione italiano.
Purtroppo il mondo della politica, sempre più distratto e sempre più asservito a
Guido Crosetto
determinate logiche, non ha reagito degnamente e in maniera compatta (come il buonsenso vorrebbe) alle dichiarazioni del Presidente Patuelli, se si mettono a parte gli interventi delle mosche bianche come Guido Crosetto e Fabio Rampelli. Nel nostro Paese infatti, un banchiere come Pautelli può arrivare pure a dichiarare inammissibile e incostituzionale una legge che vuole rendere pubblica la Banca Centrale Italiana, l’organismo che emette e presta la moneta. Che eresia!
Molti non sanno – e non immaginano – che la Banca d’Italia, benché sia un Istituto di diritto pubblico, non è affatto pubblica. Ma la cosa sconcertante è che veramente in pochi sanno che in realtà non lo è mai stata. Proviamo a fare un po’ d’ordine.
La Banca d’Italia viene fondata nel 1893 con la legge n. 443 del 10 Agosto, con la fusione tra la Banca Nazionale del Regno, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito, e dalla liquidazione in seguito alla scandalo della Banca Romana. Fu il Presidente del Consiglio dell’epoca, Giovanni Giolitti, a dirigere in prima persona tutte le operazioni, garantendo “autonomia” dal potere politico e ricalcando il modello societario proprio delle banche, evitando addirittura che la nomina a Governatore fosse appannaggio della Banca stessa con il Parlamento delegato a ruolo di mero ratificatore delle decisioni prese in seno alla loggia bancaria. Come ricorda egregiamente il giurista Bruno Tarquini, nella sua illuminante opera La banca la moneta e l’usura la Banca d’Italia fin dall’origine assunse la forma di società anonima, tenuto conto che di questa ricalcava essenzialmente l’organizzazione interna, come ad esempio la nomina degli organi amministrativi e di controllo, spettante all’assemblea della società.
Il 28 Aprile del 1910 viene emanato il Regio Decreto n. 204 con il quale lo Stato Italiano disciplinò l’emissione della carta-moneta, stabilendo che gli istituti autorizzati ad emettere biglietti di banca erano la Banca d’Italia, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia.
Con il decreto legge n. 812 del 6 Maggio 1926 alla Banca d’Italia viene riconosciuto il monopolio dell’emissione dei biglietti.
Con il Regio Decreto n. 1067 del 1936, viene ribadita l’autonomia della Banca d’Italia che mantenne la stessa struttura societaria e le fu riconosciuta la qualifica di “Istituto di diritto pubblico”.
Nell’era Repubblicana la Banca d’Italia continua il suo percorso d’autonomia nei confronti del potere politico assumendo sempre più le redini dell’economia, svuotando il ministero del Tesoro da qualsiasi responsabilità: nel 1981 il sottosegretario democristiano Andreatta firmò il decreto che sancì la separazione tra il Tesoro e Bankitalia (è dovuta soprattutto a questo fatto l’impennata del debito pubblico, se lo si aggiunge alle politiche scellerate del Ministro Paolo Cirino Pomicino che in quegli anni aveva preso come superconsulente un giovane Mario Monti…), il 7 Febbraio del 1992 il banchiere Guido Carli, già Governatore della Stessa Banca d’Italia, divenuto Ministro del Tesoro emanò il decreto che diede totale autonomia all’Istituto di via Nazionale nello stabilire il tasso di sconto (il costo del denaro).
Come si è brevemente visto, sin dalla sua nascita l’Istituto di Palazzo Koch è sempre stato di proprietà di privati e nel corso del tempo, indipendentemente dai governi e dalla forma di Stato, ha preso sempre più autonomia e poteri. Nessuno ha mai conosciuto i proprietari della Banca Centrale Italiana, soltanto nel 2005, dopo oltre un secolo, sono stati resi noti. Per questo il Ministro Tremonti ne chiese la “nazionalizzazione”: è impensabile che un’Istituzione così importante e fondamentale per la vita del Paese debba essere di proprietà di alcuni gruppi finanziari. Un meccanismo di emissione, di controllo e di garanzia deve avere sì la sua autonomia, ma non tanto dalle istituzioni politiche quanto dalle lobby bancarie che la Banca d’Italia dovrebbe controllare. Un mega conflitto d’interessi che va sanato, soprattutto alla luce del periodo storico che viviamo dove le imprese chiudono e i dividendi dei banchieri crescono.
Twitter @francescofilini