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Barbaritudine

Creato il 28 marzo 2013 da Albertocapece

lanzichenecchi-in-battagliaAnna Lombroso per il Simplicissimus

Dal dizionario: la responsabilità può essere definita come la “possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e correggere lo stesso sulla base di tale previsione”. Si tratta di un concetto centrale nella filosofia morale, nel diritto, nelle scienze sociali e nel linguaggio aziendale corrente.
Dato per scontato che le giornate commemorative istituzionalmente riconosciute hanno ormai assunto il carattere di pietre tombali, di liturgie officiate a sigillo di contenuti che si vogliono rimuovere o rifiutare, quella di ieri poteva essere festeggiata come la Giornata della Responsabilità.

Un manipolo di poliziotti entusiasticamente sostenuti da alcuni parlamentari del Pdl, hanno scelto la piazza del municipio di Ferrara per manifestare la loro solidarietà ad alcuni colleghi condannati per la morte di Federico Aldrovandi, di fatto contestando la sentenza della magistratura e i provvedimenti disciplinari decisi dalla istituzione cui appartengono, quindi oltraggiando rispetto delle leggi e inquinando ancora una volta l’affidabilità delle forze dell’ordine. Per chi si chiedesse come mai poliziotti – ed esponenti politici soliti prediligere sit in davanti ai palazzi di giustizia – abbiano scelto di esternare il loro disappunto sotto al Comune, la risposta è che proprio là lavora la mamma di Aldrovandi. Di modo che hanno potuto sommare oltraggio con oltraggio, offesa con offesa, pubbliche e private.
Sempre ieri dei rappresentanti eletti, doverosamente, puntigliosamente e scrupolosamente ripresi in diretta anche nei balbettii e nei punti neri pur esprimendo riprovazione per Ballarò e gli analoghi rituali, hanno comunicato che loro sono in Parlamento per testimoniare il malessere “per i prossimi 30 anni” e non per assumere le responsabilità istantanea che il loro ruolo richiede. Salvo ovviamente che non venga data loro l’occasione di far da soli, comunicando in seguito, tramite twet si suppone, le loro decisioni al popolo.

Un premier, mai abbastanza uscente, si presenta ieri in Parlamento per disfarsi di ogni onere che potrebbe venirgli attribuito nella scandalosa vicenda che ha compromesso l’ultima residuo di affidabilità del Paese, ben più degli sberleffi, delle corna e delle gaffes di Berlusconi. La pretesa di innocenza, paragonabile al proverbiale “a mia insaputa” di Scajola, è l’occasione per la seppia impazzita, di schizzare l’inchiostro della riprovazione sulle ambizioni inconfessabili e sull’imperizia accertata di un ministro tecnico che lui ha in passato rivendicato di aver scelto, sostenuto e coperto in ogni occasione interna e estera.

E ancora ieri un lunatico Crocetta indispettito per le esternazioni licenziose di Battiato più che per il suo accertato quanto prevedibile assenteismo, lo licenzia su due piedi. E licenzia anche l’eremita di Ginevra, Zichichi, colpevole di parlare di raggi e bosoni. Ma non licenzia se stesso reo di aver nominato due figurine, estemporanee e inappropriate, per darsi lustro mondano, per poi rimuoverle capricciosamente come un satrapo orientale.

Nella mia requisitoria di ieri sulla neo barbarie avevo dimenticato lo sdoganamento della faccia di bronzo, l’impudico e indulgente affrancamento della propria dabbenaggine o della propria tracotante idiozia. Sto diventando una attempata brontolona ma ricordo con nostalgia i tempi nei quali chi si rendeva colpevole di essersi lasciato trascinare dall’entusiasmo, traviare dal pregiudizio, convincere da apparenze o persuadere da qualche calcolo sbagliato, costretto a rendersi conto degli effetti dei suoi atti, faceva atto di contrizione e mortificazione. Erano i tempi beati nei quali l’imbecille saltuario o in servizio permanente si vergognava della sua fallibilità, della sua stoltezza e faceva autocritica, addirittura, forse ad Atene, si dimetteva dalle funzioni espletate con imperizia.
Macché, adesso la gioiosa emancipazione della libertà di sbagliare, rivendicata come una virtù democratica, come se “chi sbaglia paga” fosse un attrezzo arcaico e disdicevole del passato da riporre in cantina, rende incuranti degli effetti sugli altri, permette a ministri, amministratori, compunti rappresentanti della “società civile” di non rinnegare un bel niente, di pretendere anzi di essere lasciato in condizione di ripetere l’errore, di perpetuarlo insieme alla conferma perenne di ruoli, funzioni e privilegi.

In buona o in cattiva fede, furbi o fessi, tutti fanno ricorso all’esercizio dell’auto-redenzione, dell’assoluzione per nobili ideali, ragazzini di Salò, fiancheggiatori del terrorismo, amichetti di Vallanzasca, ministri rei di aver devastato il Paese con riforme più demolitrici dei picconi, reclamano la innocente bellezza e integrità delle loro scelte, come fossero state slanci encomiabili, magnifiche e epiche epopee rispetto alla bigia consuetudine demagogica alla responsabilità, al dovere, all’interesse generale.
Se improvvisamente si decidesse di chiamarlo società responsabile anziché società civile, quel magma indistinto di umori, sentimenti, passioni, nobili e ignobili, puri e impuri, registrerebbe molte defezioni. Perché è così accomodante e confortante la delega, così riposante l’indifferenza, così conveniente l’indulgenza. E così agevole persuadersi che così va il mondo, che vi sono eventi ineluttabili, che la colpa è di qualcuno più su, più giù, a fianco, del Destino, della Sorte, delle Parche, della Fatalità, dando forma a una irresistibile utopia al contrario, alla distopia di una società dove non si può agire, dove è meglio non lottare, dove è ragionevole sopportare. In fondo fa parte dell’ideologia al comando della terra, che vuole convincerci che è preferibile il laissez-faire, che è inevitabile che l’instabilità economica e il conseguente, iniquo aumento delle disuguaglianze, sia un effetto naturale, un prevedibile incidente irrisorio nel cammino del progresso, un costo necessario dovuto alla modernità e propedeutico a magnifiche sorti future.
“Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana”: forse è di questo che in troppi hanno paura, di essere umani, di essere liberi e la libertà non si addice a chi non sa usarla perché la proibisce anche agli altri.


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