Amore e Morte. Potrebbe essere questo il sottotitolo del bellissimo anime “Basilisk: i segreti mortali dei ninja”. Uscita nel 2005 e basata sull’omonimo manga di Masaki Segawa (tratto a sua volta dal romanzo “Kōga Nimpōchō” dello scrittore giapponese Futaro Yamada) questa serie è un prodotto dello studio GONZO che, volente o nolente, sta lasciando un’impronta indelebile nella storia recente dell’animazione giapponese. In 24 episodi dalla durata di 24 minuti ciascuno (sigle d’apertura e chiusura comprese), si realizza forse un piccolo primato: in un tempo così ristretto muoiono tutti e venti i ninja protagonisti, fatto alquanto inusuale se si pensa alle lunghe serie seinen alle quali siamo abituati, dove gli scontri tra i combattenti si dilatano per una decina di puntate. Ma “Basilisk” è un anime adulto, che a cagione della sua origine letteraria si rifà alla tradizione classica dei poemi greci e delle tragedie. Il casus belli che dà inizio alla drammatica vicenda è, come in qualsiasi conflitto, un accidentale pretesto che funge da valvola di sfogo per tutta una serie di tensioni accumulate in 60 anni di pace forzata. Protagonisti della storia sono infatti i clan Iga e Koga, due famiglie di ninja che, prima del patto di non belligeranza, erano divise da un odio atavico durato ben 400 anni, le cui ragioni sono piuttosto difficili da rintracciare. La vicenda inizia nell’era Tokugawa. Lo shogun Ieyasu, per stabilire il suo successore, associa a ognuno dei suoi due figli un casato ninja i cui membri dovranno combattere contro quelli del clan rivale. I nomi dei componenti uccisi di ogni famiglia, vengono tracciati con il sangue su una pergamena e lo shogunato sarà deciso, quindi, dal clan che sopravviverà.
Potrebbe sembrare un futile motivo per dare il via all’azione, ma sin dall’opening “Basilisk” fuga i possibili rischi. Ogni puntata si apre difatti con un’introduzione in bianco e nero che scalpella con insistenza i mattoni del muro di odio che divide le due famiglie. Come nella “Batracomiomachia” e nella favola dello scorpione e della rana, anche qui gli animali forniscono una cristallina metafora per delineare l’inesorabilità degli istinti umani. Il serpente e l’aquila, simboli dei due casati, si attaccano a vicenda. Si daranno la morte entrambi, eppure una cieca forza istintuale li spinge ad agire in quel modo. Ed è questo fatalismo di ritorno, dove tutti i personaggi sembrano meri componenti di un orologio, a scorrere grandioso durante tutta la serie. C’è una sorta di respiro epico molto occidentale e un senso di tragedia inevitabile che darà esito nefasto all’amore tra i protagonisti e che rimanda al “Romeo e Giulietta” di shakespeariana memoria. Come in un poema corale, ognuno dei venti combattenti possiede peculiari tecniche ninja e una propria personalità. Ma la migliore eredità permutata dalle tragedie guerresche è sicuramente la messa in atto di una totale mancanza di confini tra Bene e Male. Eroi e antieroi stazionano in ogni campo di battaglia e la Giustizia non è altro che un lumicino che una delle due fazioni, in senso assoluto, porta sempre con sé. I Koga sono stati attaccati per primi ma non esitano a uccidere i loro avversari.
Gli Iga, dal canto loro, sono manovrati da Tenzen e si ha l’impressione che se il Destino non avesse continuato a “martellare” sulla rivalità tra le due famiglie, anche loro avrebbero potuto astenersi da quel bagno di sangue. Nessuna linea etica è tracciata con certezza, e i personaggi si muovono con ambiguo fascino in questa assenza. Stessa levità narrativa hanno i personaggi che muoiono sia alla terza puntata che all’ultima. Sulla caratterizzazione dei protagonisti, “Basilisk” rompe davvero tutti gli stereotipi: nemmeno i personaggi positivi si salvano, nessuna morte è raccontata con più drammaticità di un’altra e nessun combattente sovrasta gli altri per capacità ninja. Gli scontri sono spettacolari e veloci, non sfilacciati come nelle serie più lunghe. L’azione viene finalmente raccontata con un punto di vista maturo: innanzitutto le tecniche non hanno astrusi nomi (spesso anglofoni, per sudditanza tutta nipponica) e i ninja non si perdono in chiacchiere sulla spiegazione delle loro capacità, lasciando che sia lo spettatore a scoprirle semplicemente guardandole. Per quanto riguarda il lato tecnico, “Basilisk” è indubbiamente uno dei migliori prodotti mai usciti dall’animazione del Sol Levante. Il character design è morbido e preciso, la fotografia e i colori si adattano con camaleontica bellezza ai vari scenari della storia, le musiche sono suggestive ed evocative contribuendo ad aumentare i climax dei notevoli colpi di scena che si susseguono alacremente.
Nota particolare merita la perfezione delle animazioni, accostabile senza forzature a quella dei più quotati lungometraggi, oltre all’elevatissima qualità media di ogni puntata. Sul lato più propriamente estetico e di genere, la serie si muove con scioltezza tra violenza (mai comunque insostenibile e che ha una recrudescenza soltanto nella morte splatter di Tenzen, che funziona da catarsi prima dell’ultimo drammatico scontro), azione e un erotismo-soft. I personaggi femminili, soprattutto Akeginu e Okoi, non lesinano infatti sull’esibizione delle loro nudità e anche su questo versante “Basilisk” si colloca al vertice di un genere ormai saturo e che è specificamente giapponese. La regia di Fuminori Kizaki indugia sulla suddetta carne delle protagoniste e in particolar modo, vuoi per la sopraccitata bellezza del tratto, su primi e primissimi piani. Fondamentali sono gli occhi dei due sfortunati amanti, nei quali si racchiude il loro potere e il loro destino. Il finale di “Basilisk” giunge straziante e funereo, con la scelta inevitabile del doppio suicidio. Dopo aver visionato la serie, fugace come il lampo che tutto illumina, sorge spontanea una domanda: che sia l’Amore l’unica potenza in grado di sconfiggere la Morte?