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Basket: La nostra esperienza con Dan Peterson

Creato il 21 ottobre 2014 da Sportduepuntozero

Armani Jeans Milano-Pepsi Caserta“Mai sanguinare davanti agli squali”.
Piccola perla di saggezza, aforisma ricco di significati, citazione indimenticabile, indissolubilmente legata a quella sua pronuncia tipica. Nessuno si permetterebbe infatti di utilizzarla con la corretta dizione italiana e nel caso lo si facesse, l’affermazione si svuoterebbe di significato. Perché non si tratta di un semplice richiamo ad una frase che ha fatto la storia, no. Si tratta di un’invocazione a colui che l’ha per primo coniata e pronunciata; un uomo, una voce, una leggenda.
Si è svolta ieri al Centro Congressi dell’Unione Industriale di Torino, grazie alla collaborazione con la PMS la presentazione del libro “Basket & Business” scritto a quattro mani dal prof. Dino Ruta, della Sport Business Accademy della Bocconi e dal coach Dan Peterson, che non ha bisogno di sintetiche e poco accurate presentazioni.
Quando mi hanno proposto di partecipare all’evento ho controllato la mia agenda; appurata la mancanza di impegni in un mite lunedì sera, ho pensato che mi sarei divertita ad ascoltare dal vivo la famosissima voce diventata ormai parodìa dell’americano che parla italiano.
Mai, tuttavia, mi sarei aspettata di rimanere così estasiata a fine conferenza.
Dan Peterson lo conoscono tutti. Anzi, tutti conoscono la voce di Dan Peterson. Io, se non avessi controllato cinque minuti prima di entrare in sala su google, non penso l’avrei mai riconosciuto.
Il telefono non prendeva in sala e non ho potuto dare un’occhiata alla sua carriera su wikipedia.
Meno male.
Dal primo momento in cui ha preso parola, le circa 200 persone presenti in sala hanno smesso di respirare. O comunque hanno iniziato a farlo in modalità silenziosa, rimanendo incollati con lo sguardo al relatore. Da fuori, probabilmente potevamo sembrare una setta di psicopatici ipnotizzati dal santone di turno, visto che ogni volta che finiva di raccontare un aneddoto ci scorticavamo le mani a furia di batterle.
Nell’arco di 5 minuti dall’inizio del racconto, ecco che mi sento catapultata indietro nel tempo, con effetti speciali che neanche i film del giorno d’oggi riuscirebbero ad eguagliare.
Partiamo negli anni ’50 in un college degli U.S.A., dove incontriamo uno dei “maestri” di Peterson che gli insegna a guardare dentro alle persone, a scegliersi i componenti della squadra in base al cuore più che alle doti tecniche e fisiche. Poi si fa un piccolo salto in Cile e si scopre che tanti, per anni, hanno creduto che invece di allenare la nazionale cilena, coach Peterson fosse una spia della CIA. Da lì veniamo catapultati nella Milano degli anni ’80, la mitica “scarpette rosse”, che quelli della mia generazione hanno solo vagamente sentito nominare. Ti trovi di fronte a giocatori del calibro di Dino Meneghin, Mike D’antoni, Roberto Premier, così lontani dallo stereotipo dei campioni del giorno d’oggi che ti sembra di poterli immaginare solo in bianco e nero. Subito dopo iniziamo a vincere, prima un campionato dopo l’altro e poi la Coppa dei Campioni e qui l’emozione di ascoltare un racconto si trasforma in vera e propria pelle d’oca.
Intanto, mentre vivi in prima persona, attraverso la sua voce, i ricordi di coach Peterson, impari qualche nozione sulla leadership tutt’altro che scontata. Come ad esempio essere sempre esigente ma allo stesso tempo ispirare fiducia ai tuoi giocatori; esaltare i più forti ma ringraziare sempre il decimo uomo che anche in quell’unico minuto a partita ce la mette tutta. Non fare mai promesse e coinvolgere tutti, dai preparatori atletici ai custodi dei palazzetti. Insegnamenti che, grazie all’efficace capacità di sintesi del prof. Ruta sono facilmente trasferibili nel mondo del lavoro o, più in generale, nella vita.
Alle 21.00 sono dovuti arrivare gli stewart del centro congressi ad interrompere quel meraviglioso viaggio nel tempo. Già perchè il tempo è volato e neanche mi sono accorta che erano passate più di due ore.
Tornando a casa, con un sorriso beota stampato in faccia, riflettevo su Dino Meneghin. Nella maggior parte degli aneddoti del coach c’era lui ed è abbastanza evidente il motivo. Probabilmente il miglior giocatore italiano di sempre; atleta eccezionale, e uomo di grande spessore. Da come ne parlava Peterson, sembrava che fosse stato l’uomo più fortunato del mondo ad allenarlo per così tanto tempo. Io però ho pensato al contrario. A quanto è fortunato Meneghin. E ieri, da giocatrice, ascoltatrice e appassionata dello sport più bello al mondo, volevo essere Meneghin. Non per la sua fantasmagorica carriera cestistica. No. Volevo essere Meneghin solo per potermi vantare di avere Dan Peterson come fan numero uno.


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