Ho letto Luce d’Agosto di William Faulkner da ragazzino, in un periodo difficile, giorni perduti in cui mi sentivo particolarmente isolato, senza prospettive, come spesso accade agli adolescenti. E come spesso accadeva in quella terra degli anni ‘70, la Bassaromagna che sembrava il profondo Sud degli Stati Uniti, coi suoi uomini lavoratori e razzisti, omofobi e duri. Il razzismo era una componente molto diffusa, anche se non c’erano i negri, essendo l’immigrazione un fenomeno ancora quasi sconosciuto (ma non l’emigrazione, con molti italiani che continuavano a raggiungere la Germania e la Svizzera in cerca di lavoro). Quindi il razzismo si indirizzava soprattutto verso i marocchini, cioè gli italiani meridionali. Respiravo quell’aria soffocante, lavoravo in fabbrica durante le vacanze estive ed ero costretto a subire i lunghi monologhi degli altri operai sui marocchini fannulloni (e speso questi discorsi venivano fatti proprio mentre si era imboscati a fumare e sonnecchiare), sui culattoni, e così via. Insomma, leggendo quel poderoso romanzo mi sembrava di esserci, a Yoknapatawpha. E che stile, che scrittura: quei periodi lunghi, furiosi, i flussi di coscienza, i salti temporali. Avevo già letto il Kerouac dei Sotterranei, il taurismo letterario di Henry Miller, ma Faulkner era davvero fantastico. Trascorrevo ore e leggere e rileggere, passando dallo stupore alla condivisione, dalla rabbia alla depressione. Una frase in particolare colpì la mia fantasia febbrile, la lessi e la rilessi, la trascrissi anche da qualche parte, tanto che non l’ho più dimenticata:
Domani, domani e domani ancora.
Non solo non più sperare, ma neppure attendere; soltanto sopportare.
Recentemente l’ho cercata, sfogliando il libro, la stessa edizione di allora (Mondadori Medusa), scolorita e mezza sfasciata, ma non l’ho trovata. Mi è persino venuto il dubbio che non esista nel romanzo, che l’abbia letta altrove, oppure, prospettiva inquietante, che l’abbia scritta io. Eppure metterei la mano sul fuoco che proviene proprio da Luce d’agosto.
Fu un colpo allo stomaco. Mi sembrò una frase di assoluta disperazione.
Sopportare per sopravvivere, non esisteva altra prospettiva.
Riflettendo oggi, ho deciso che quella frase lapidaria non significa solo disperazione cupa e abissale, ma anche scelta di resistenza. Tenere duro, sopportare le avversità, che possono essere terribili, ostinate, ma che prima o poi passano. La frase sembra collegarsi a questo antico proverbio cinese: “otto o nove volte su dieci le cose vanno male.” Sprofondare nel buio, ma continuando a cercare la luce. Perché una-due volte su dieci le cose vanno bene. E tutto si muove, tutto scorre, tutto cambia, la luce si alterna con l’oscurità, il fuoco con l’acqua, l’aria con la terra. E’ di nuovo l’antica saggezza cinese che ce lo insegna, con gli esagrammi dell’I Ching.
Dunque niente attese nell’immobilità, aggrappati a vaghe speranze, ma sopportare, resistere, per uscire da Yoknapatawpha.
(Mauro Baldrati)