Batoru rowaiaru, Giappone, 2000, 114 min.
Instant cult sin dalla sua uscita, quando ha sollevato un vespaio di polemiche giunte addirittura fino al parlamento giapponese, Battle Royale è la degnissima ultima opera di uno dei più grandi nomi del cinema di genere nipponico, Fukasaku Kinji, autore negli anni settanta di titoli come Lotta senza codice d’onore, La tomba dell’onore e il meno conosciuto ma bellissimo Sotto la bandiera del Sol Levante.
In un futuro inquietatemente vicino il Giappone è al collasso: con la disoccupazione al 15% e oltre 10 milioni di persone senza lavoro, i giovani frequentano sempre meno le scuole e diventano oggetto della fobia di una società già in ginocchio. Come far capire loro il valore della vita e ritrovare gli ideali perduti? Con il BR Act, ovviamente; ogni anno una classe di liceali sorteggiata a caso viene portata su un isola deserta, dove gli studenti vengono informati di avere tre giorni per uccidersi l’un l’altro, senza regole, finchè non ne rimarrà soltanto uno, in caso contrario moriranno tutti.
Non ci sono solo la violenza delle immagini e la nerissima critica sociale a giustificare lo status di questo film; l’aspetto forse più sottovalutato finora dalla critica sono i suoi meriti strettamente cinematografici: Battle Royale è un piccolo saggio di regia, la dimostrazione di una conoscenza del mezzo che rasenta la perfezione. E’ una bomba pronta ad esplodere con precisione millesimale, calibrata con una perfezione che solo un bombarolo esperto come Fukasaku poteva progettare. Trovatosi a dover gestire 42 studenti (più il personaggio dell’istruttore interpretato da Kitano) e una gran varietà di situazioni, il regista riesce miracolosamente a trovare un equilibrio perfetto nell’alternare personaggi e scene. Chiaramente il romanzo e il manga da cui è tratto possedevano una caratterizzazione dei personaggi molto più profonda, ma Fukasaku riesce anche solo in pochi minuti, o addirittura secondi nel caso di alcuni, a delinearne la psicologia e compierne le sorti con mirabile incisività e dono della sintesi. Per farlo si avvale sicuramente di alcuni dei clichè a cui i fan del cinema nipponico sono avvezzi, ma riesce a sfruttarli a suo favore risultando sempre credibile come nel suicidio dei due innamorati, nella pazzia che prende il genietto della classe, nelle due ingenue ragazze che credono di poter risolvere tutto pacificamente. Ognuno risponde a proprio modo al terribile dilemma morale cui vengono posti di fronte, come recita la tagline della locandina: ”Hai mai ucciso il tuo miglior amico?”, riusciresti a mantenere i tuoi principi in una situazione di sopravvivenza o ti uniresti al massacro di amici e conoscenti? Questo potente interrogativo fa emergere nei personaggi disperazione umana e istinto animale; la tensione che si viene così a creare costituisce una delle caratteristiche più affascinanti.Battle Royale non perde mai un colpo per tutti i suoi centoquattordiciminuti: alle fantasiose e truculente scene di ammazzamenti vari, Fukasaku alterna con matematica precisione brevi flashback, parentesi sentimentali, situazioni grottesche e addirittura momenti onirici. La cosa incredibile è che il tutto risulta perfettamente amalgamato per la gioia dello spettatore che, se riesce a reggere la violenza di alcune scene piuttosto forti (ma si è visto di peggio), vivrà un’esperienza di terrore e tensione ad alti livelli. Emblematica è la scena del faro, nel quale l’amicizia di cinque ragazze affonda letteralmente davanti ad un piatto di minestra, mentre, all’inizio, la idol che presenta gioiosamente alla televisione le regole del gioco produce un effetto così stridente col contesto da mettere i brividi.
Sul versante della lettura sociologica del film è stato detto praticamente tutto: non ci si meraviglia che il governo lo abbia censurato e ritirato dalle sale vista la pessimistica visione della società nipponica che ne emerge. Nel blog abbiamo trattato molti film che trovano nelle giovani generazioni le radici del male (Confessions, Bright Future, Villain), ma queste radici da dove sono nate? Come vengono alimentate? Fukasaku dimostra che non è il mondo giovanile quello da obliterare, da cancellare facendolo scontrare nel survival game nella vita. Al suo interno troviamo mele marce tanto quanto idealisti, aspiranti rivoluzionari e apatici, troviamo, insomma, i giovani, come sono e sempre sono stati. No. Battle Royale è un duro atto d’accusa alla società istituzionalizzata, repressiva e bigotta, incapace di incanalare in forze costruttive la vitalità dei giovani. Il film di Fukasaku ha tanti meriti quindi, ma gli manca comunque qualcosa per poter essere definito un capolavoro. Innanzitutto gli attori: i giovani protagonisti della vicenda non forniscono prove eclatanti e a volte si stenta a riconoscerne la credibilità. Colpisce però l’interpretazione di Kuriyama Chiaki, la letale Gogo Yubari di Kill Bill vol.1, che in pochi minuti riesce a far emergere lo spirito di un personaggio fuori dagli schemi. Ma è ancora una volta Kitano Takeshi a rubare la scena a tutti i suoi giovani colleghi, difficile pensare a qualcun altro che potesse interpretare così il personaggio di uno ieratico quanto spietato istruttore che nel finale dimostra addirittura un pò di umanità. Le scene dell’ombrello e della telefonata, nell’oscillare tra il surreale e l’onirico, producono un effetto straniante, delle piccole oasi in mezzo al massacro. Paradossalmente sono invece proprio le scene dedicate ai due protagonisti, interpretati da Fujiwara Tatsuya (Light Yagami nei film di Death Note) e Maeda Aki (la batterista di Linda Linda Linda), a risultare più deboli, finendo con l’essere le uniche cadute di ritmo della pellicola e non spiccando di certo tra le storie d’amore non dichiarato, tipiche giapponesi.Battle Royale rimane comunque un film potente e spiazzante, girato benissimo; uno dei capisaldi della cinematografia nipponica del nuovo millennio e allo stesso tempo lacerante testamento spirituale di un regista che ha dato moltissimo al cinema del suo paese.
EDA