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Beket

Creato il 09 giugno 2013 da Eraserhead
BeketGirotondo, giro attorno al mondo (1998) gettò le basi per l’edificazione di un modello di cinema (italiano) che non conosce compromessi, o tutto (tutto, fino all’escatologia) o niente (niente, la vacuità del vuoto), bianco o nero, come la fotografia del tunisino Tarek Ben Abdallah di questo Beket (2008), film che vede il ritorno al lungometraggio di Manuli dopo dieci anni e che prosegue il filo del grottesco iniziato con l’opera prima senza concedere alcunché allo spettatore: due uomini, Freak e Jajà, un luogo di frontiera (una Sardegna riarsa), la ricerca di (un) dio, delle maschere lungo il cammino; Beket è tutto qui, pellicola poverissima dal punto di vista della produzione ma preziosa per il suo essere così sotterranea, orgogliosamente altra, un’apparizione su celluloide che appallottola le logiche tramiche per cestinarle seduta stante (l’autobus sospeso a mezz’aria) e proseguire attraverso quadri statici, insensati (eppure dietro ad ogni linea di dialogo, anche la più strampalata, la percezione è che quello di Manuli non sia affatto uno scarabocchio ma un disegno mirato ad esacerbare la miseria dell’esistenza) ed episodici con situazioni anche sconnesse dall’invisibile racconto principale (si vedano le parentesi con l’Adamo dj e l’Eva lesbica). 
Ne esce fuori un atlante di autoironica desolazione, Manuli inventa (ma anche ricicla e cita) un cinema d’epica slavata, che si burla dei Santi (non per niente il titolo è una sgrammaticatura) e dei poveracci in terra, ritraendoli nel loro errare inconsapevole di essere loop senza uscita di sicurezza, due ladroni condannati ad essere crocefissi per l’eternità.

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