Sono cresciuta con il racconto dei miei genitori che, negli anni '60, si recavano di nascosto a vedere uno spettacolo di Dario Fo e Franca Rame, nella piccola, perbenista e pettegola città di Casale Monferrato.
«E perché ci andavate di nascosto?» domandavo ingenuamente a mia madre.
Perché non si poteva. Gli insegnanti del liceo, del magistrale, i genitori tutti casa-lavoro-chiesa... chissà che cos'avrebbero mai detto, se avessero saputo che i loro figli, i loro studenti andavano ad ascoltare quei due "rossi" di Dario Fo e Franca Rame.
Ero una bambina e Franca mi piacque da subito, perché era bella. Durante il suo lungo monologo ai piedi della croce, mi sorprendevo a contrarre tutti i muscoli del corpo, rapita dai suoi gesti, dallo scialle nero, dalla splendida crocchia dei suoi capelli biondo-rossicci. Trattenevo il fiato quando, alla fine del pezzo, lei si collocava al centro del palcoscenico, urlando e gesticolando superba: «Vai, Gabrièl! Vai, Gabrièl! Vai... Gabrièl!» e pensavo che occorreva un grande coraggio per scacciare un angelo e rifiutare il suo conforto.
In questi giorni, complici le polemiche di cattivo gusto a cui hanno dato vita articoli come quelli di "Libero" e "Il Giornale", si parla spesso del monologo Lo stupro, portato in scena da Franca cinque anni dopo il triste episodio del 1973.
Il sangue mi cola dalle guance alle orecchie.Lessi il testo per la prima volta su uno dei libri di mia madre, che aveva comperato quando studiava all'università. Mi fece stare molto male: la bestialità umana... un conto è leggerla sui libri di testo, a scuola; un altro è sentirla raccontare da una donna che l'ha subìta sulla propria pelle e ne porta ancora i segni.
È il turno del terzo. È orribile sentirti godere dentro, delle bestie schifose.
“Sto morendo, – riesco a dire, – sono ammalata di cuore”.
Ci credono, non ci credono, si litigano.
“Facciamola scendere. No… sì…” Vola un ceffone tra di loro. Mi schiacciano una sigaretta sul collo, qui, tanto da spegnerla. Ecco, lì, credo di essere finalmente svenuta.
A me piace ricordarla anche negli altri monologhi di Tutta casa, letto e chiesa - in quei frammenti che
raccontano sempre e ancora il dolore delle donne (Medea, Ulrike) e che, al contempo, sanno strapparci un sorriso: testi che parlano di operaie affannate, casalinghe tristi, mamme fricchettone; dell'educazione sessuale e di quanto sia difficile per ciascuna di noi esistere al di là del proprio ruolo e della conformazione anatomica. Mi faceva sorridere, "la" Franca, quando raccontava di come si mettesse a chiacchierare col figlio seduta nel bagno - perché è quello che ho sempre fatto anche io con mia madre... E mi faceva sentire meno strampalata, quando diceva, di fronte ad una platea gremita di persone, di preparare enormi quantità di minestrone ogni volta che era nervosa - perché anch'io cucino per ore e ore, quando qualcosa mi tormenta.
La notizia della morte di Franca mi ha lasciata sgomenta. Ho provato una sensazione di smarrimento, causata dalla percezione di perdita incolmabile: come quando morì Alda Merini... ma forse anche di più, perché Franca era "con me" e con la mia famiglia da anni... Addirittura, si degnò di rispondere alla lettera che le scrissi mentre stavo lavorando alla mia tesi - e lo fece con gentilezza squisita. E' stata un modello, un'ispirazione meravigliosa.
Era bella, ecco. Continuo a ripetere lo stesso aggettivo con cui la etichettavo da bambina - anche ora che ho 33 anni. "Bella" nel senso più alto e poetico del termine.
Franca è stata una di quelle persone che, quando vengono a mancare, ti spingono a domandarti: «E adesso?».
E adesso niente: si va avanti. A testa alta, ornate di una bella sciarpa rossa.
Si va avanti a dispetto delle scritte sui muri, degli insulti fascisti, della morsa dei pregiudizi che ancora ci stringe e ci toglie il fiato. Si va avanti perché nessuno sa combattere meglio e più tenacemente di noi - donne e uomini che aspiriamo a diventare ogni giorni più grandi e più belli e a rendere migliore il mondo che ci è toccato in sorte.
Andiamo avanti perché Franca e tutte le persone come lei continuino a vivere, a respirare, a gridare: «Vai, Gabrièl!». Dopotutto, si sa, non abbiamo bisogno di Dio: ci bastano le nostre mani, le nostre gambe, i nostri polmoni, i nostri cuori caldi.
Ciao, Bella.