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Benedetto Croce: nè re, nè duce

Creato il 25 luglio 2010 da Casarrubea

Lettera inviata in America da Sorrento. Nel presentarla ai suoi superiori, Vincent Scamporino, agente dell’intelligence Usa, precisa che “i suoi contenuti – integrali o parziali che siano – non vanno divulgati”. La missiva di Croce a Lippmann utilizza gli speciali canali postali tra gli Stati Uniti e l’Europa attivati dall’Oss negli anni 1943 – 1945. Tutta la corrispondenza italiana, sia in entrata che in uscita, viene copiata, tradotta e inviata ai vertici dei servizi segreti americani. Celebre giornalista e opinionista politico americano, Walter Lippmann (1889 – 1974) collabora al quotidiano International Herald TribuneLa guerra fredda, pubblicato nel 1947). Nel 1962 vince il premio Pulitzer per dal 1931 al 1966. E’ autore di numerosi libri di politica internazionale (tra i quali un’intervista esclusiva al leader sovietico Nikita Kruscev. Documento originale in italiano. Si trova alla collocazione del Nara, rg. 226, s. 108, b. 111, e in copia dell’originale nel nostro Archivio di Partinico (Pa).

*

Segreto  

Oggetto: Lettera di Benedetto Croce a Walter Lippmann

Data: 18 novembre 1943

Caro signor Lippmann,

Benedetto Croce: nè re, nè duce

Benedetto Croce

io non ho mai dimenticato la visita che Ella mi fece a Napoli tanti anni or sono, come sempre ho seguito l’opera Sua nei volumi che ha avuto l’amabilità di inviarmi. Mi permetta di ripigliare ora con Lei la conversazione su cosa che assai mi sta a cuore e che sono sicuro che anche Lei prenderà a cuore.

Gli alleati anglo – americani, nel dichiarare ripetutamente i fini della guerra, ponevano a capo di tutti quello di sradicare il fascismo e il nazismo, e di punire severamente i loro autori e rappresentanti, proposito che per lo meno dovrebbe significare questo: che essi siano esclusi dalla vita pubblica.

Orbene, come mai in Italia rimane ancora a capo dello Stato la persona del principale responsabile del fascismo, che è il re Vittorio Emanuele III? Del re che non volle firmare lo stato di assedio deliberato dal suo Ministero e aprì la porta a Mussolini, e con ciò, data la stima che si aveva di lui che aveva fatto sempre dichiarazioni democratiche, lasciò credere al Paese che egli dominasse la situazione ed adottasse un espediente transitorio per evitare repressioni sanguinose e conflitti? Del re che da allora in poi ha violato tutti i patti della costituzione da lui giurata, ha troncato ogni relazione con gli oppositori e con coloro che erano oppressi e protestavano, si è asservito interamente al regime, e, in ultimo, ha dichiarato la stolta guerra, conferendo il comando dell’esercito italiano, che dall’articolo 5 dello Statuto era affidato a lui, al Mussolini?

E’ vero che, troppo tardi, nel luglio scorso, egli mandò via il Mussolini e poi concluse l’armistizio; ma ciò fece soltanto quando si avvide che il fascismo era finito e non poteva più porgere alcun appoggio ai suoi interessi dinastici.

E, mirando unicamente a questi interessi e non curando né la giurata libertà né i suoi doveri verso il popolo di cui è cittadino e sovrano, d’allora in poi la sua politica è stata di mantenere in vita quanto più poteva delle istituzioni e degli uomini del fascismo, proteggendoli in modo da avere nel Paese un partito che, favorito nei suoi interessi materiali, l’appoggiasse.

Anche quando ha dichiarato la guerra alla Germania, e viene preparando forze militari a questo fine, egli si studia di formarle tali che servano a lui come sostegno per mantenersi sul trono; e perciò non solo accoglie tutti i fascisti, anche quelli più compromessi e colpevoli di essere andati a gettare bombe in Spagna o in Croazia, e con loro i comunisti, purchè si dichiarino monarchici e giurino, ma – cosa più grave ancora – in modo diretto e indiretto, con manifesti affissi o con manovre insidiose, vieta ogni levata di volontari; ed è una pena vedere i giovani che giungono qui a Napoli, dall’alta Italia e da Roma, dopo avere attraversato con grande ardimento le linee tedesche, rimanere delusi e oziosi, e sentire spento il loro ardore.

Per il passato del re e per il suo presente atteggiamento le personalità politiche, che sono state da lui officiate, hanno ricusato di formare un Ministero, non potendo in coscienza giurargli fedeltà e non avendo nessun mezzo di rialzare il prestigio che egli ha perduto, anche nelle più umili classi popolari. Essendosi testè presentato a Napoli, sulle vie da lui percorse è stato accolto dalla gelida indifferenza generale.

Benedetto Croce: nè re, nè duce

Walter Lippmann

La mancanza di un ministero formato da vecchi e provati uomini politici insieme con i più giovani rappresentanti dei vari partiti antifascisti e antitedeschi, è gravissima, mancando così ogni indirizzo e ogni vigore alle autorità locali dipendenti; né alle stesse autorità della occupazione militare può giovare questa paralisi della vita italiana, che, mentre accresce le sofferenze di un popolo che ha viste distrutte le sue case ed è affamato, prepara la ribellione e la delinquenza. E tutto questo perché il re deve cercare di restare al posto dove egli, in definitiva, non potrà in alcun modo restare!

A questo risoluto atteggiamento di biasimo al re, che è anche il mio che sono fra i vecchi uomini politici, già ministro nel gabinetto liberale del Giolitti, è stato risposto dal ministro di casa reale, che era venuto qui a chiedere la mia cooperazione al ministero, che invano noi pretendevamo l’abdicazione del re, perché gli inglesi e gli americani vogliono che in Italia si conservi la monarchia, pur lasciando che dopo la guerra il popolo italiano scelga la forma di governo che gli conviene.

A ciò abbiamo replicato che nessuno di noi pensava di aprire, mentre dura la guerra e abbiamo i tedeschi nel nostro territorio, un dibattito su monarchia e repubblica, e che eravamo di intesa a rimandare questo problema alla fine della guerra; ma che altra era la questione istituzionale e altra quella personale, e che il re rappresentava la prosecuzione del fascismo e l’ostacolo a provvedere alle cose italiane e anche alla cobelligeranza con gli anglo-americani.

La proposta dunque da noi sostenuta, era, ed è, che il re e suo figlio, principe di Piemonte, corresponsabile con lui per il contegno tenuto, abdichino e sia dichiarato re il minorenne Principe di Napoli, con una reggenza a capo della quale si ponga il Maresciallo Badoglio. Questo mutamento, fatto ora, salverebbe l’istituto monarchico o ne prolungherebbe, e forse ne accrescerebbe, le speranze, e in Italia la concordia degli spiriti e il sentimento del compiuto distacco dal passato fascistico.

Ora io non so, mentre Le scrivo, se la nostra proposta finirà per prevalere. Per intanto, il maresciallo Badoglio l’ha resa pubblica ed ha annunziato che il re, non potendo comporre un Ministero di uomini politici per il rifiuto incontrato, nominerebbe un ministero di funzionari e di tecnici. Quale autorità e quale vigore possa avere un simile ministero è superfluo dire; e con quale animo sarà composto si può desumere dai primi nomi che sono stati annunciati, tra i quali quello del Jung, che fu ministro delle finanze del Mussolini e che dava segni di fanatico attaccamento a costui.

Quanto all’atteggiamento delle autorità anglo-americane, sta di fatto che esse finora hanno impedito ogni manifestazione per l’abdicazione del re e ogni discussione nei giornali che controllano; e tutto ciò non è certamente incoraggiante. Se gli italiani avessero in questa questione piena libertà di esprimere il loro voto, l’abdicazione e l’assetto di sopra proposto si attuerebbero senz’altro, col consenso generale, e sarebbe una questione chiusa.

Questo è il problema urgente di noi italiani; ma io non gliene avrei scritto, se essa non si congiungesse nella mia mente con la guerra e con l’avvenire che la fine della guerra prepara. Ho avuto occasione di scrivere pel New York Times, che me ne fece richiesta, un articolo sul Fascismo come pericolo mondiale, che a quest’ora dovrebbe essere stato pubblicato. Ma in quell’articolo, scritto a metà ottobre, lumeggiando alcuni aspetti del problema, non potei fermarmi sopra un altro di essi che mi si è andato svelando da quando gli anglo-americani sono in Napoli. In Italia, il fascismo è una malattia per sempre superata e non tornerà più, e tutto fa sperare che l’unica forza, viva e seria, che creò il nostro risorgimento nazionale nel secolo passato e che governò beneficamente i sessanta e più anni che corsero dal 1860 all’avvento del fascismo, ripiglierà il dominio, come già ne diè indizio l’esplosione liberale che seguì alla caduta del fascismo, durante i quaranta giorni precedenti all’armistizio e all’occupazione tedesca. Chiesa cattolica e comunismo, per ragioni diverse od opposte, non hanno né l’una né l’altra forza costruttiva; l’esercito è sempre stato disciplinato e sottomesso al potere politico, né mai ha tentato pronunciamenti. Ma si può dire lo stesso delle tendenze e delle disposizioni politiche che vengono mostrando, nel campo dei fatti, gli angloamericani?

Quel che è accaduto nell’Africa francese del nord, dove uomini e partiti, fascisti non di nome ma nel carattere, hanno avuto il sopravvento e hanno perseguito i democratici; o nella Sicilia, dove l’amministrazione è – per colpa precipua del capo americano Poletti – nelle mani degli ex fascisti; ma soprattutto quel che ne vedo e ne osservo qui a Napoli, da quando vi sono giunti gli americani e gli inglesi io sono venuto al convincimento che, se la bandiera innalzata dagli alleati nella guerra era la restaurazione e lo stabilimento della libertà, nella pratica ci si orienta verso un assetto fascistico o semi fascistico per effetto dei circoli politici e degli interessi economici prevalenti nei rispettivi paesi, e soprattutto per la paura del comunismo verso il quale il fascismo non è già una difesa, come si immagina o come le menzogne di Mussolini hanno fatto credere al mondo, ma una preparazione, o un sostituto, che ne raccoglie il peggio. Basta, del resto, leggere il programma venuto fuori in questi giorni, della nuova repubblica italiana fascista, ideata dal Mussolini, per leggervi che sarà una repubblica sociale, con l’abolizione del capitalismo et similia.

Come studioso di storia non sono e non posso essere ingenuo, e mi è ben noto che le guerre non si fanno per ideali morali, ma per la difesa e l’ampliamento dei singoli stati, e che gli uomini politici che rappresentano gli stati debbono adempiere a questo solo, che è il loro proprio e diretto dovere. Ma so anche che essi non possono passar sopra agli ideali morali quando questi si convertono in forze politiche e formano richieste e stati d’animo e volontà della pubblica opinione. E so che in America e in Inghilterra questa pubblica opinione è ancora potente e se in certi casi non interviene come in questo che le ho descritto dell’Italia e come nei sintomi che si notano di un avviamento pericoloso per l’Europa e anzi per il mondo tutto, è perché non è informata. Ella è uno di coloro la cui parola è ascoltata dalla pubblica opinione in America e oltre l’America; come io, in un campo più ristretto, durante e contro il fascismo, mi sono fatto ascoltare e ho operato sulla pubblica opinione e ho conseguito buoni effetti. Vorrà dunque prendere in considerazione le cose che le ho esposte e le altre che le ho accennato, e che sono più gravi perché hanno una estensione e una importanza internazionale?

Con questa speranza ho ripreso con Lei la vecchia conversazione, nella quale ricordo che ebbi occasione di dirLe, alla Sua meraviglia sullo stato di acquiescenza in cui aveva trovato l’Italia sotto il fascismo, che se in altri paesi, se nella stessa America il popolo si lasciasse sfuggire di mano il congegno liberale, si sarebbe visto assai di peggio, perché l’Italia è pur sempre un paese di antichissima civiltà, e che più facilmente di altri si ripiglia e si rialza. Quel che avvenne qualche anno dopo, all’avvento del nazismo in Germania, fu la conferma del mio giudizio. Il nazismo si tirò dietro non solo la politica e l’economia, ma la scienza stessa e il pensiero tedesco, e distrusse nei tedeschi l’umanità, riducendoli a macchine; ma gli italiani, anche sotto il fascismo, macchine non diventarono.

Mi abbia con cordiali saluti e con la speranza che questa lettera Le giunga e che io possa ricevere da Lei un cenno di risposta.

Suo,

Benedetto Croce


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