Negli ultimi anni anche in Italia c’è stato un proliferare di campagne per la tutela dei beni comuni, dai referendum sull’acqua alla richiesta di socializzare la Cassa Depositi e Prestiti. È forse in atto un cambiamento culturale? Il dibattito sui beni pubblici, collettivi o privati, risale almeno agli anni ’50, con le loro contrapposizioni ideologiche.
Samuelson definì i beni pubblici non escludibili e non rivali; che quindi non possono essere appropriati e scambiati su un mercato. Ma secondo Davis e Whinston (1967) questa definizione evidenzia un fallimento del mercato: se tutti possono usufruire di un bene, il suo prezzo non svolge la sua funzione tradizionale (cioè rapportare la scarsità alla domanda effettiva). In tal senso, per gli autori, il pagamento delle tasse consiste in un “atto di carità”. Le tasse sono infatti pagamenti per beni che sono offerti a prescindere dalla volontà di consumarli. Nessun consumatore perderebbe parte del suo reddito per un bene che non usa.
Ma è davvero così? Dobbiamo scegliere tra l’essere consumatori o cittadini? La tematica dei beni comuni ha aperto un dibattito sulla gestione diretta e partecipativa delle risorse. Elinor Ostrom, Premio Nobel 2009, mostra che le comunità sono capaci di definire regole e di rispettarle. Esse possiedono infatti una conoscenza del contesto locale e delle regole “operative” che sfugge all’amministrazione pubblica (anche quella locale) e al mercato. Ciò rende possibile un controllo diretto della cittadinanza.
Tuttavia le comunità si differenziano culturalmente fra loro. Seguendo Davis e Whinston, nulla vieta che l’ottica del consumatore caratterizzi alcune collettività, portandole a concepire come irrazionale il pagamento delle tasse per servizi che non si desidera consumare direttamente.
In questo senso il tema della proprietà, come base per lo scambio, risulta centrale. Ci sono due modi di gestire i beni comuni: uno orientato agli interessi del gruppo e a una gestione “corporativa”, l’altra come proposta potenziale e sfida culturale.
Nella prima visione, seguendo Davis e Whinston, si può parcellizzare la proprietà, e gestire il bene sulla base del pezzo di proprietà che ciascuno possiede. Ogni comunità potrebbe gestire parte delle risorse comuni appropriate o gestire beni pubblici come servizi privati della comunità; potrebbe competere con altre comunità per garantire il miglior prezzo per l’uso della risorsa condivisa, o proporre una tassazione competitiva. Queste comunità sono orientate alla competizione, sulla base del prezzo che ciascun consumatore o comunità paga. Gli individui sono in grado di scegliere come utilizzare il bene condiviso e come ampliare la loro impresa.
Ci sono poi comunità differenti, in cui il rischio è molto più alto. La sfida delle campagne per
ri-pubblicizzare i servizi e per gestire i beni comuni esprime un’altra cultura: il diritto di disporre di alcuni beni, di usarli a scopi sociali, di pagare un prezzo (tasse) non correlato necessariamente al consumo individuale (ad es., lavoratori senza figli pagano le tasse per le scuole). Alla base di questa visione vi è l’attenzione verso il prossimo; la disponibilità a pagare per chi non conosciamo, anche se potrebbe approfittare di questo “atto di carità”; la volontà di condividere conoscenze e prospettive; la necessità di informarsi, di organizzarsi e partecipare. Uno sforzo immane, ma che per molti sembra avere senso.
Non c’è qui nessun richiamo alla follia del razionale, a una democrazia schmittiana o all’impegno del singolo secondo un etica etero-diretta. C’è una domanda esistenziale in sospeso. La questione riguarda la percezione dell’identità, il cercare di comprendere che cosa dia senso alla propria vita. L’allargamento della nostra identità agli altri, considerandoci il risultato di sforzi altrui e parte di un processo più ampio, motiva comportamenti che appaiono “irrazionali” nel breve periodo, ma che non lo sono affatto se li si guarda in un orizzonte temporale più esteso.
Per rendere tutto questo non illogico c’è bisogno di un’evoluzione dei concetti di identità e di proprietà. Imparare a gestire collettivamente un bene, riconoscere più prospettive individuali, accettare il rischio di un fallimento è irrazionale, ma non irragionevole. Fa parte dell’uscita da una cultura, di un processo democratico che spinge ad allargare le prospettive. La democrazia ha la forma di un cerchio, bisogna essere in grado di fare un passo indietro per farne due in avanti. Allo stesso modo, nella spesa privata, si comincia effettivamente a scegliere una politica di produzione tramite il proprio consumo, il proprio “voto col portafoglio”.
Bisogna ora chiedersi se la gestione non appropriativa dei beni comuni e l’etica nelle scelte di consumo non siano due facce della stessa medaglia, di una trasformazione “globale” della cittadinanza e della partecipazione politica (Dalton 2008). Si tratta di recuperare il senso della politica e dell’economia, di un governo e di un mercato, snaturati da una cultura competitiva, appropriativa ed esclusiva che ci ha reso schiavi di noi stessi, isolati, strumentalmente interessati e tristi.
Bibliografia
Dalton, R. J. (2008). Citizenship Norms and the Expansion of Political Participation. Political studies, 56(1), 76-98.
Davis, O. A., & Whinston, A. B. (1967). On the Distinction between Public and Private Goods.
American Economic Rev., 57(2) , 360-373
Ostrom, E., (1990). Governing the Commons, Cambridge U. P.
Ostrom, E. (2010). Beyond markets and states: Polycentric Governance of Complex Economic systems. American Economic Rev.,100 (3) 641-72.
Ostrom, V., Warren, R., Tiebout, C. M. (1961). The Organization of Government in Metropolitan Areas. American Political Science Rev., 55 (4), Dec. 831-42.
Samuelson P. A. (1954). The Pure Theory of Public Expenditure. Rev. of economics and statistics, 36 (4), 387-89.
Tiebout, C. M. (1956). A Pure Theory of Local Expenditures. Journal of Political Economy, 64 (Oct.): 416-24.
16 giugno 2014