Kreuzweg (Via Crucis – Stations of the Cross), regia di Dieter Brüggemann. Con Lea van Acken, Franziska Weisz, Florian Stetter.
Scandito dalle stazioni della Via Crucis, la personale ascesa al Golgota e al voluto martirio di una ragazzina di 14 anni, cresciuta in una famiglia catolico-integralista. Camera fissa a filmare ogni singolo blocco, come in un oratorio. Un film che non irride chi crede, un film che si fa domande ma non dà facili risposte. Con un occhio a Dreyer, Bergman, Mungiu. La cosa migliore a oggi del concorso. Per vincere però se la dovrà vedere con i tanti pregiudizi antireligiosi. Voto 9.
È passato qualche giorno da quando l’ho visto, ma questo film tedesco continua a essere in testa alle mie preferenze, e a turbarmi. Un gran colpo di gong a questa Berlinale, per quanto racconta e per come lo fa. Per il coraggio, inaudito davvero, di riproporre al centro della sua narrazione e dunque della nostra attenzione (iflessione?) il sacro, il trascendente, il religioso, l’oltre-naturale. Dio. La fede. Il cristianesimo vissuto come esperienza totale e radicale in un’Europa, in un Occidente, quasi completamente secolarizzati. Cioè, tutto quello che la cultura ormai dominante – quella di cui sono intrisi i media e anche le nostre menti, le nostre conversazioni, le nostre cene conviviali con amici e conosccenti e non-conoscenti – ha espunto da molto tempo quale cosa sconveniente, anche socialmente sconveniente, quae residuo di un’età oscura, quale indice di una visione povera del mondo e di bassa appartenenza (sotto)culturale. Sono laico, ma ho un gran rispetto per chi crede e, ebbene sì, anche per il cristianesimo, senza del quale nessuno di noi – noi dell’occidente intendo – saremmo quello che siamo, anche i laici che siamo. Detesto le grevi e triviali polemiche antiecclesiastiche, antipapiste, contro la Chiesa tropo ricca e arruffona e corrotta, e tutto quello sparlare greve di Ior e Marcinkus, e delle scarpe Prada di Ratzinger ecc. ecc. Quell’ignobile repertorio del dalli al prete, dalli alla tonaca, dalli al papa e al cardinale, di cui sono pieni, e basta dare un’occhiata, i social network che frequentiamo. Ecco, in un mondo che oggi è questo qui, appare un film come Kreuzberg, ed è una rivelazione. Storia, sofferenza e passione di una ragazzina di anni 14 di nome Maria. Parte di una famiglia cattolico-tradizionalista, messa e preghiere in rigoroso latino, recupero e pratica del rito tridentino, ogni passione e ogni cedimento ala carne banditi. Un ambiente che somiglia a quello filmato in uno dei documentari migliori dell’anno scorso, Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini (lì eravamo in Texas, all’imterno di una famiglia di fede presbiteriana). Si sta preparando alla cresima, Maria, dunque a diventare soldato di Cristo, a militare per lui, ma la sua mente è tormentata dal’idea del martirio, del sacrificio di sé a Dio. Aspirazione che è stata in passato di tante sante, di tante ‘pazze di Dio’, e oggi liquidata come aberrazione psichica. Lo straordinario di questo film è che prende sul serio Maria e la su aspirazione a un personale calvario, non la liquida trivialmente come una matta da legare, ce la racconta sospendendo ogni giudizio e standole invece vicino e facendocela amare. Il contrario di quello che aveva fatto lasutriaco Ulrich Seidl nel suo tremendo Paradiso: fede dove sbeffeggiava senza pietà una poveretta solo colpevole di essere una fervente cattolica. Maria ha un fratellino di quattro anni che non parla, autismo dicono gli specialisti. Ma lei comincia a pensare che se offrisse la propria vita a Dio potrebbe ottenere in cambio la guarigione del fratello. Così si prepara a lasciare questo mondo, rinunciandovi a poco a poco, ritirandosi in sé, alleggerendo sempre di più il proprio corpo fino a quasi dissolverlo. Morirà di rinuncia e di consunzione. Il suo percorso è scandito in capitoli che riprendono le stazioni della Via Crucis, in un parallelismo cristologico che, se appare inizialmente forzato e programmatico, poi ci appare sempre più coerente: Cristo cade la prima volta, la seconda volta, La veronica gli asciuga il viso, Il buon cireneo lo aiuta a portare la croce, e così fino al’ultima stazione, che sapete bene quale sia. Noi insieme a Maria saliamo verso il suo Golgota, a ogni stazione della Via Crucis ci viene mostrato un corrispondente e affine episodio della sua vita. Ogni blocco, ogni stazione, è rigorosamente ripreso a camera fissa, a creare l’effetto di un oratorio religioso. Dialoghi che, pur nella loro naturalezza e quotidianità, bucano l’ordinaria dimensione e ci scagliano oltre. SPOILER. Maria muore, e nel momento in cui lei muore, il fratellino comincia a parlare. Un miracolo, come nel finale di Ordet di Dreyer, film di assoluto riferimento di questo piccolo, nuovo capolavoro. Ma ci sono moltissimi altri echi, per esempio dell’Ingmar Bergman di La fontana della vergine, il suo film più ‘miracolistico’, a Oltre le colline di Cristian Mungiu, del quale però, e fortunatamente, non riprende le corrive polemiche antireligiose. Spero che vinca, ma Kreuzweg se la dovrà vedere non solo con altri competitori (Anderson, Resnais, inklater e altri) ma con quella dominante cultura rozzamente laicista di cui parlavo, e non sarà facile vincere i tabù antireligiosi. (Nella parte del sacerdote si rivede Florian Setter, il Friedrich Schiller di The Beloved Sisters proiettato poco prima di questo Via Crucis).
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Berlinale 2014. Recensione: il tedesco KREUZWEG si merita l’Orso d’oro, semplicemente
Creato il 12 febbraio 2014 da LuigilocatelliPossono interessarti anche questi articoli :
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