Duo delle meraviglie che dagli anni Ottanta ad oggi ha sviluppato uno stile arcano e grottesco.
Paola Pluchino. Reduci dal premio Pino Pascali e in partenza per la All Visual Arts di Londra, aprono le porte del loro laboratorio imolese per concedere un’intervista, svelando, in parte, la poetica della loro Vanitas, commistione di influenze orientali e di tradizioni a loro vicine.
Nella loro Kust – und Wunderkammer l’aria è polverosa e nulla scintilla nel verso di un’autocelebrazione: nessun belletto né foto di gala, nessuna opulenza né sofisticazioni di sorta, ma una serie di stampi in gesso bianco a soffitto, come libri, storie, pezzi di corpi pronti per essere assemblati, composti come un pittoresco e giocoso Frankenstein . Giampaolo è preso a modellare insistentemente il ventre di un Buddha – gorilla ancora in divenire come a voler infondere, con piglio taumaturgico, l’ élan vital che quel corpo senza vita parrebbe attendere, seduto e dormiente come capo tribù.
A ristorar le conversazioni l’ultimo album di Vinicio Capossela, Marinai, Profeti e Balene, che, per ironia della sorte, pareva collegarsi amabilmente con la nostra nave dell’arte. Dell’intuito ne parlarono poi loro, ammettendo che la coscienza e l’armonia interiore precedono la ragione: solo a queste spetta il compito di virare al cerchio conclusivo e vertiginoso della loro esterna e immota produzione.
Entrare così, in punta di piedi, a domandare che cosa passa per la testa di un artista quando decidere di mettersi al mondo. L’ironia, la sospensione, il portato paradossale e doppio delle loro opere, tutto questo si trasformò in un lieve conversare in punto x del mondo, fuori, la neve a rimembrare la fuggevolezza e l’imperscrutabilità del tempo.
Fu la loro storia a rispondere alle domande poste.
Comprano negli anni Ottanta un capannone, insediando quel laboratorio di ceramica che oggi il mondo ci invidia ( si vedano le ultime acquisizioni londinesi di All Visual Arts). Se al provinciale la ceramica parve sempre mezzo e stilema della buona pirofila, si stupì che qui, questa coppia, profilava la pretesa di far fiorire la ceramica come mezzo d’espressione del design radicale, infondendo alla materialità del corpo l’inserto pittorico, vestigia dell’arte commestibile.
Avanzando così tra Transvanguardie, Nuovi Nuovi e Arte Concettuale, abbracciarono la tecnica come base solida ed encomio inossidabile della loro processione, tra mantra e simboli, tra disgrazie e poetica del memento mori. Cominciano così i contatti, con Mendini prima e con Arman e non solo. La storia che li celebra comincia nel 1998, quando Gian Enzo Sperone li scopre e li porta in mostra a Torino.
La coppia parla di quel periodo come momenti di arricchimento, di cambiamento e di crescita, svolta di una complessità che pretendeva da loro un dire più sofisticato, un’invasione dell’ambiente e un’occupazione fisica della quotidianità, oltre a un chiarimento nel verso del loro pensiero. Nascono così due collezioni, una per esterno e una per interno, oggetti d’arredo come tavoli, lampade, e sedie, che dicono l’arte nei termini del loro uso, difendendo la tecnica come zoccolo duro del fare arte, come metodo e lume della propria creazione.
L’arte è tutta sbagliata sembrano dire, si limita all’apparenza, ma nell’apparenza niente si rifà al vero. Il moto della coscienza, l’intuito, l’istinto è quello che permette di procedere speditamente lungo il proprio percorso, tralasciando e abbandonando la presunzione di una soluzione onnicomprensiva.
La vanità dell’arte è anche la sua natura: un muro di gomma costantemente respingente, elevandosi al contempo a maestra e posa esatta del vero. Questo è il senso del teschio con il naso da pinocchio, rivelar nel belletto la prima bugia dell’arte: sostituire l’apparenza con la verità. Mirare all’eccellenza, dicono, è l’atteggiamento da adottare, tenendo sempre presente che insito nella natura dell’uomo fallire.
L’etica della speranza è la sintesi della loro arte, ma in realtà nascondono in cantuccio profondo il fine che realmente li muove.
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