A distanza di vent'anni esatti, Tim Burton torna dietro la macchina da presa per dirigere un film biografico. Big Eyes narra la vera storia di Margaret Keane, pittrice degli anni '50-'60 e vittima di una delle più note frodi artistiche in campo pittorico. Come nel 1994, anno di Ed Wood, la stesura del soggetto viene affidata alla coppia Scott Alexander e Lerry Karaszewsky. Dalle sfumature di un bianco e nero grottesco e nostalgico, Tim Burton sembra essersi molto allontanato, si dissolve dietro la macchina, con il solo e unico scopo di raccontare. Senza metterci del suo, forse non troppo, tanto che nessuno se ne accorge e a stento si direbbe che è un vero e proprio film del regista di Burbank. Dicono...Questo distacco, tuttavia, è necessario. Come spesso accade nel percorso di un artista, la visione del mondo che si vuole raccontare cambia, insieme a lui. E Burton è cambiato, lo hanno detto in tutte le salse, con fin troppa arroganza e saccenza. Io trovo il cambiamento naturale e necessario, ma i criticon de criticonis dicono che io sia poco equanime. Stavolta però non dobbiamo mica giustificare una deliranza inammissibile. Nemmeno un vampiro che pare essere poco credibile, o un corto degli anni '80 che diventa film e non vuol dire altro che "mancanza di idee". Sì... stavolta è diverso.Che poi, se uno spettatore accorto avesse la voglia di guardare davvero, troverebbe Tim Burton in diverse inquadrature, perché non sono mai un mero mezzo tecnico dell'arte audiovisiva e basta. Sono molto di più.Lo spettatore accorto, e non per forza burtoniano incallito (come me), vedrebbe la commozione negli occhi senza trucco e i colori pastello di una storia vera che non richiede espedienti particolari. Alcuni trailer parlavano di "una vera storia incredibile", e io c'ho pensato alle storie incredibili di Edward Bloom. Ho pensato a quel film atipico, per niente in stile visionario e grottesco, eppure il più burtoniano, il più bello. Hai sentito il critico che ha detto? Ha detto bello!!!Iiiiiih. Ho capito una volta per tutte che, alcune storie, diventano incredibili a partire dalla loro credibilità. Ogni storia che si rispetti deve dare a chi la incontra una possibilità di riconoscimento, di empatia. Burton racconta la storia di Margaret, nonché amica del regista, e sa che deve mettersi da parte, perché la sua intenzione è di renderle un omaggio sincero. In quegli anni l'arte di una donna era presa poco in considerazione. Era difficile affermarsi, soprattutto in campo artistico, dunque lo spettatore non ha particolari pretese se non quella di una rivalsa personale. La vittoria di Margaret e la fine della grande menzogna tirata su dal suo secondo marito Walter, diventano il solo epilogo plausibile. In effetti quando seppi dell'uscita del film, mi domandai nell'immediato come potesse metterci del suo, un regista come Burton, in questa storia. Poi mi ricordai di Big Fish, di quella storia meravigliosa e di cattivo gusto del '94, e diedi a me stessa la possibilità di una buona aspettativa. Guardai meglio quei dipinti e, in quegli occhi tanto grandi, vidi per la prima volta la malinconia e la voglia di guardare. Una visione oltre lo schermo.In altre parole, Tim Burton.
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