Dopo qualche minuto di visione, mi sono detto: «Ci risiamo, l’ennesimo remake di 8½…». Poi, gradualmente, mi sono rilassato e goduto il film: ho visto un piano sequenza ininterrotto che spulcia nelle viscere di un teatro, perlustrandone i luoghi, le attese, le vicende legate alla messa in scena pericolosa di un attore smanioso di abbandonare definitivamente il personaggio che lo ha reso celebre, il supereroe Birdman, di inventarsi una nuova carriera, anzi, di convincere il pubblico e la critica di essere un vero attore e non un ex fenomeno da blockbuster. Il dialogo al bar tra il protagonista, Riggan Thompson, e la critica del New York Times, Tabitha Dickinson, è illuminante, decisivo per comprendere l’annosa querelle che divide l’arte teatrale dalla realtà del giudizio espresso fuori dal palcoscenico, la sentenza del recensore che condanna o assolve: You’re no actor. You’re a celebrity. Let’s be clear on that.[1]
Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) si può definire una buona pellicola, è sostanzialmente Hollywood che bistratta se stessa, la sua autoreferenzialità, la sua supponenza, il suo narcisismo clinico, e proprio per questo Hollywood ha premiato il film con quattro Oscar, tanto per avvalorare il suo illimitato autocompiacimento nel vedersi rappresentata in modo così cinico e impietoso sin dai tempi di Norma Desmond. Alejandro González Iñárritu ha fatto bingo vincendo la statuetta per il miglior film, la migliore regia e la migliore sceneggiatura originale, non altrettanto si può dire per gli attori, in primis Michael Keaton e in secundis Edward Norton, che forse avrebbero meritato qualcosina di più.
Che aggiungere? Ammesso che Birdman sia l’ennesimo remake, fatto anche molto bene, di 8½, come mai in Italia non siamo più in grado di risalire a 8½? Forse che s’è esaurita la scorta di ombelichi da contemplare?
Ma io non sono un recensore, per fortuna, ma soltanto un fruitore entusiasta di esser stato intrattenuto piacevolmente per quasi due ore.
mvg