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Birdman e la lezione di Eduardo

Creato il 09 aprile 2015 da Antonio De Rose @antonio_derose

L’attore quando muore deve morire. Basta! Deve sparire! Non deve lasciare quest’ombra, questa falsa vita. E’ una cosa falsa. Io ho fatto pure il cinematografo ma perché mi servivano i quattrini; non l’ho fatto per piacere. Solo il teatro mi ha dato gioia, sempre. E quello che mi ha dato contatto con il pubblico, possibilità di parlare, di cambiare, di evadere… insomma per me la vita è passata in un attimo. Meno male! (Eduardo De Filippo)

Con Birdman, di Alejandro González Iñárritu, il cinema non si limita a rappresentare il teatro in una delle sue sedi più prestigiose, il distretto newyorchese di Broadway. Ma si riappropria di un’impostazione che la settima arte derivava, agli albori del cinematografo, dalla stessa disciplina teatrale. Scene fisse, montaggio quasi impercettibile, piani sequenza a gogò. L’esperienza dello spettatore è paragonabile a quella del “teleteatro” degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento: la messa in scena si adatta al nuovo mezzo ma i tempi e la scrittura sono quelli del teatro classico. La riflessione di Iñárritu s’incentra sullo showbiz che soffoca il talento degli attori, affibbiando loro i panni di supereroi; personaggi che sbancano i botteghini, ma si appropriano della personalità di chi l’interpreta. Succede nel film, succedeva anche nella Commedia dell’Arte. La maschera come sigillo dell’assoggettamento umano. Nel 1958 Eduardo De Filippo scriveva Il figlio di Pulcinella. Come la maschera partenopea definisce il popolo napoletano, asservito ai potenti, così Birdman fa nei confronti del pubblico un po’ ottuso delle saghe fumettistiche. Nella commedia di Eduardo, Jhon si leva la maschera e fugge via, finalmente libero dalla menzogna; in quella di Iñárritu, Riggan Thompson si ribella compiendo quell’atto definitivo che, secondo la lezione di De Filippo, distingue fondamentalmente il teatro dal cinema. Muore. Film coraggioso, con radici ben piantate. Voto 8.



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