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Bisogna saper soffrire

Da Marcofre

Anton Cechov affermava proprio questo. Chissà cosa voleva dire, anche perché si riferiva alla scrittura, si capisce.
In realtà è abbastanza semplice comprendere il senso della sua affermazione. Ma sono quasi certo che per alcuni potrebbe apparire una posa: come può soffrire un autore? Scrive, mica lavora. E nella Russia dell’Ottocento, di certo Cechov se la cavava egregiamente.

Non faceva parte della massa dei contadini che pativa la fame mentre lo Zar se la godeva.

Come sempre due considerazioni veloci.
La prima: un autore lo si giudica dalla sua opera. La sua coscienza è una faccenda che riguarda lui, e d’altra parte nessuno chiede a un idraulico cosa pensa dell’ingiustizia del mondo. Gli si chiede di liberare la nostra casa dalla perdita d’acqua, e il prima possibile. Chi scrive dovrebbe essere trattato come l’idraulico. Ci sarebbero meno chiacchiere, più silenzio, e questo non è che un bene.

La seconda considerazione. Cechov invita a non essere banali. Ad affrontare il dolore certo perché esiste eccome, non però con isteria o retorica, come spesso invece accade (guardiamo come la televisione tratta i temi del dolore).
Bensì con la consapevolezza che la sofferenza è un elemento di questo mondo. Che fa parte del nostro vivere quotidiano e per questo motivo diventa necessario evitare di darne una spiegazione logica.

Credo che il buon Cechov avesse già individuato quei germi che adesso vediamo chiaramente in tanta parte dei nostri pensieri. Vale a dire la volontà di dare della sofferenza una spiegazione. Non che questa non abbia delle cause o dei responsabili ben precisi, anzi.
Però il problema è che certe spiegazioni “logiche” ci allontanano dall’uomo, ed esistono parole capaci di separarci dalle nostre esperienze. E anche la letteratura cade in questo equivoco.

L’invito di Cechov non è a infliggerci dolori allo scopo, magari, di renderci forti. Bensì di agire in modo che le parole per descrivere il dolore siano quelle “giuste”. In grado di avvicinarci all’essere umano e al suo mistero. E questo si ottiene quando si mette sottochiave la retorica, e la voglia di rendere tutto piano e comprensibile. E si guarda alla forza della parola, alla sua capacità di unire, e non di dividere.

L’indignazione e la protesta sono di certo utili, in letteratura spesso sono ingredienti superflui. Non spettano a chi scrive. Costui o costei deve avvicinarsi alla storia, all’individuo, restando distante dalla tentazione di essere “solidali” o indignati.

Nella frase di Cechov c’è anche la sicurezza che si può imparare a soffrire, anzi “bisogna”. Come un autore non deve essere sposato per raffigurare una famiglia, così egli può imparare a soffrire e rendere appunto la sofferenza qualcosa di tangibile.


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