Magazine Musica

Blu

Da Miwako
E' tutto blu. La schiuma si muove lenta sopra di me. Lembi di pelle affiorano come arcipelaghi sparuti, in questa piccola vasca travestita da oceano. L'asciugamano appeso, la luce filtrata, la tenda blu, pure quella. Delfini anche qui. Inquietanti, tutti uguali, come i bambini del Villaggio Dei Dannati. Versione pokemon, però, aerografati di colori fluorescenti.
Mentre osservo le nuvole di sapone che giocano usando le mie ginocchia come nascondigli, fumo una sigaretta. Infinita. Interminabile. Nè la prima, nè l'ultima. Solo la migliore.
Alla mia pelle sembra di avere la febbre.
Il tappo della vasca è andato perduto. Infatti, il bagno non lo facevo da un po'. E' pur vero che, non foss'altro per una sorta di accanimento terapeutico, puntualmente improvviso totem di pesi in equilibrio per impedire all'acqua di lasciarmi scoperta. E puntualmente spuntano terre emerse. E fa freddo. E l'acqua scorre via.
Riapro il miscelatore; incolore, inizia a piovere dappertutto, le nuvole si sgonfiano, si stendono su di me, si rincorrono vorticose, disegnando cose mai viste sulla superficie tremula. Un gatto. Una pistola. Un paio di occhiali. C'è pure l'urlo di Munch. Sarebbe da fotografare, per un attimo è veramente identico. Una donna di Klimt percorre svelta la mia coscia sinistra, scivolando verso la sorgente, dove si trasformerà in altro.
Mi godo lo spettacolo di questa anacronistica versione liquida del test di Rorschach.
Sullo sfondo, il mio corpo deformato dall'acqua, il blu, la mia pelle che sembra ancora più bianca.
Penso che non appena l'acqua cesserà di scendere, tutto tornerà allo status quo ante, ed io avrò freddo. Il totem spunta tra le mie caviglie, fatto di plastica imbottita, ignorante, inservibile.
D'altra parte, il diametro della base sarà di 5 cm, quello del foro di 3,5, e nonostante l'effetto ventosa, devo prendere atto del fatto che un cerchio più grande non può colmarne uno più piccolo. Come un quadrato non può farlo con un triangolo.
Funzionano così pure gli esseri umani.
Eppure si ostinano,anche loro, in un cocciuto accanimento terapeutico (a ognuno il suo)  i cui esiti, sono spesso poco proficui.
Sette miliardi di forme geometriche, nessuna uguale all'altra, come i fiocchi di neve.
Allungo i piedi, afferro il totem e lo smonto. Una spugna forse andrà meglio.
Esisteranno anche le persone spugnose?
Mi chiedo come facciano a restringersi e dilatarsi, a seconda di quale sia l'incastro da colmare.
La spugna funziona, per la vasca.
Per gli umani, non lo so. Credo di no.
In questo stato quasi amniotico, il tempo, smette di esistere. Stille gelide, mi pungono le spalle dal cielo. Una camicia a quadri se ne sta sospesa quasi un metro sopra di me. Cadono ritmate. Ci provano loro a scandire un tempo che non è più quello mortale e non è nemmeno il mio. Un'eternità fugace tra una goccia e l'altra. Alzo gli occhi, cercando quella camicia che non mi appartiene, e penso che non c'è niente che mi appartiene, in realtà. Al massimo sono io ad appartenere a qualcosa. Forse, neppure questo.
E' una bella sensazione.
Non è smarrimento.
E' ritrovarsi. Così, come dovremmo essere.
Non si perde niente perchè niente ci appartiene.
Questa consapevolezza precaria durerà giusto il tempo indefinito di questo bagno.
Domani, quando qualcuno se ne andrà dalla mia vita, quando un'opportunità mi verra soffiata via sotto il naso, quando mi ritroverò in quei boschi sconosciuti in cui altre volte ho brancolato senza sapere dove fossi, sentirò di aver perso qualcosa. E se si può perdere solo ciò che ci è appartenuto, significa che c'è qualcosa che ci appartiene, oppure semplicemente, che ci illudiamo che qualcosa ci appartenga, sentendoci nel pieno diritto di soffrire per la perdita.
Eppure, si può perdere anche qualcosa che non ci appartiene, ma cui apparteniamo, e soffrirne ugualmente.
Anche queste parole che, come una ginnasta con i suoi attrezzi, sembrano un prolungamento di ciò che sono, in realtà, non mi appartengono. Smettono di farlo nel momento esatto in cui mi scivolano via dalle dita.
George Bataille diceva "Non posso considerare libero un essere che dentro di sé non nutra il desiderio di sciogliere i legami del linguaggio".
Spaventevole la verità condensata in una frase.
Paradossale che, una volta raggiunta la libertà che permette di affrancarsi dal peso delle parole, ci si ritrovi prigionieri dell'incomunicabilità.
Rumori di altre vite fuori di qui, mi riportano alla realtà. Nessuno dorme, questa volta, nella casa di via G. Non sento le lancette, ma so che il tempo ha ripreso a scorrere da dove si era incastrato.
Dovrei uscire, cedere il passo per il bagno che occupo già da troppo tempo, ma decido che posso esitare ancora un po', starmene qui a mollo, assieme a tutte queste cose che mi escono dalla testa e diventano reali, per un attimo, con sembianze quasi umane. Non ci si sta più, in questa vasca ormai affollata. Eppure c'è spazio per tutti. Le parole, disseminate come lentiggini sul pelo dell'acqua; le persone e le loro geometrie reali o presunte; il silenzio umido di questa stanza, che ascolta tutto quello che non dico. L'unica per cui sembra non esserci spazio a sufficienza, è la libertà. Ma non credo sia una questione di mere dimensioni; strizzarla in questo piccolo posto, sarebbe come tentare di imbottigliare tutta l'aria che c'è. E poi, la libertà, se ci sta, significa che già non è più.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :