“Mirror, mirror on my wall. Who is the fairest in the world?” La frase più celebre della fiaba di Biancaneve si trasforma nel manico di una clutch per Benedetta Bruzziches. E si ha davvero la sensazione di essere protagonisti di un mondo fatato, quando si parla di questa giovane designer laziale e delle sue creazioni: una borsa diventa un pacco regalo da scartare, un diario sopra il quale poter scrivere un messaggio personale, uno specchio nel quale riflettere la propria anima rinata, uno strumento attraverso il quale urlare la propria gioia. Benedetta Bruzziches, con il suo omonimo brand, racconta storie, emozioni e persone, perché ciò che rende davvero bella una borsa non è la sua perfezione estetica, ma tutto ciò che sta nel profondo. Le collezioni BB, create completamente nel laboratorio della designer situato nel centro storico di Viterbo, sono fresche, originali, attrattive: ogni borsa viene riproposta in stampe, colori e materiali diversi, per sorprendere e colpire con il design particolare e il bagaglio emotivo racchiuso al suo interno. Una magia che Benedetta Bruzziches non solo sa esprimere visivamente con la sua creatività, ma anche attraverso le sue stesse parole.
Ecco a voi che cosa ha confidato a DModa:
Quando hai deciso di lanciarti nel mondo della moda e iniziare a dedicarti proprio alle borse?
Ho deciso di lanciarmi in questo mondo fin da bambina, ho scelto la moda, perché era una rappresentazione tangibile della fantasia attaccata al corpo. Ho cominciato a dedicarmi alle borse sulla scia dell’incoscienza e di un incontro fortuito. Ho bluffato così bene che mi sono autoconvinta di poterlo far diventare un lavoro! Poi ho deciso che volevo cambiare il mondo, ma quella è un’altra storia.
L’essere cresciuta in un piccolo comune di montagna del Lazio è stato un limite alla realizzazione del tuo sogno o un incentivo?
Io non credo alla fortuna, credo che siamo artefici del nostro destino e che possiamo diventare quello che ci pare. Mi ricordo di un momento della mia infanzia, quando si mangiava sul terrazzo tutti insieme d’estate a pranzo e mio padre, guardando il panorama sconfinato con il monte Soratte, se ne stava lì piantato in mezzo a tutto, con quell’aspetto così familiare, come se fosse uno di noi ed esclamava sempre “ma chi ce sta meglio di noi?”.
Quello stesso Padre, che anziché mazzi di rose rincasava con i mazzi di fiori di zucca per la sua Ada e anziché gioielli le portava pomodori, prugne, zucche, cocomeri, uova e ogni tipo di gioia naturale producibile in Italia, ha voluto che io nella mia vita scegliessi di dare spazio ai miei sogni. Mi ha spronato a credere nei desideri, a rispettare il prossimo e la natura, a ricercare il valore e la qualità delle cose e a riconoscere la gioia nella semplicità, a considerare la fatica come un valore ed il lavoro come un mezzo per lasciare questo mondo migliore, rispetto a come lo abbiamo trovato. Lui che, anche se non aveva potuto studiare, mi ha insegnato il valore della cultura e l’arte delle mani ed, ogni volta che ci portava in campagna, non risparmiava mai il sorriso e nascondeva dietro ogni pianta, pecora, formaggio uno spunto per insegnarci tutto quello che sapeva.
Mi ha insegnato che quando fatichi puoi sempre cantare, che quando ti annoi puoi sempre fantasticare, che la terra è viva e se ci parli risponde, ma che se un’annata è “accia” bisogna “saper stringere la cinghia”, che gli anziani hanno tanto da dire e che i bambini vanno tenuti in grande considerazione. Mi ha insegnato quanto sia importante ragionare con la propria testa e camminare con le proprie gambe, mi ha insegnato che essere autosufficienti significa essere liberi, che dare può essere più bello che ricevere e che “chi semina vento raccoglie tempesta”.
Riguardo mia madre “Se le mani c’avessero paura quanto l’occhi nun se farebbe niente”, “meglio faccia roscia che panza moscia”, “‘mparate a fa’ tutto che a fa la signora nun ce vo’ ‘gnente a ‘mparasse” anche se lei ancora non ha imparato! Li considero la mia unica, immensa, fortuna.
Quella che cerco di portare avanti attraverso il mio lavoro è una battaglia a favore del localesimo – un neologismo dal sapore antico, che sta dall’altra parte della staccionata della globalizzazione.
Hai vissuto molto all’estero, in Paesi quali India, Brasile, Cina. Che cosa hanno significato questi viaggi per te? Sono stati fonte di ispirazione?
Quella del viaggio è una dimensione quasi magica. Per me ha ancora lo stesso significato che aveva per i viaggiatori di una volta, quelli che ci hanno lasciato pagine importanti di letteratura: un’esperienza alla scoperta di se stessi, dei propri limiti e delle proprie capacità.
L’India, in particolare, ha rappresentato il momento in cui mi sono resa conto che tutto è possibile.
Hai affermato che il motivo che ti spinge a fare questo lavoro è comunicare. Che cosa vuoi trasmettere, in particolare, con le tue collezioni?
Uno spunto per vivere la giornata da una prospettiva diversa. Se mi sono appassionata alla moda è perché sono sempre alla ricerca di quell’armonia tra l’interiore e l’esteriore. Per me l’abito non solo è traduzione di un nostro stato interiore, ma soprattutto può rappresentare uno spunto per influenzare la nostra quotidianità. Non mi riferisco esclusivamente all’uso consapevole del colore (i colori che ci mettiamo addosso influenzano la nostra giornata, ma anziché viverli passivamente, potremmo anche decidere di usarli coscientemente, come nostri alleati ad esempio), ma anche all’impatto della teatralità dell’abito rispetto alla nostra percezione del mondo. Le mie borse, poi, sono dei veri e propri talismani. Quello che voglio trasmettere è un’atmosfera, un potere magico, di cui la borsa potrebbe essere la bacchetta, che permetta alle donne di sentirsi belle sempre, perché la bellezza è una decisione personale (il Magic Mirror è nato proprio per questo, e ogni volta che lo apri, questo messaggio lo trovi scritto all’interno) di rispettare la propria dolcezza e ascoltare i propri sogni (il Cabaret è una dichiarazione di dolcezza per tutte le donne del mondo), di sapere che se vogliono possono e di trasportarle in una dimensione, quella della fantasia, che le faccia essere in armonia con tutto ciò che le circonda, con una particolare attenzione alla Natura (che è rappresentata nelle stampe della parte più intima di ogni mia borsa, come i laghi in cui si specchiano i fenicotteri delle minaudières e la seta dei taschini interni). Nulla è lasciato al caso o all’estetica, c’è un simbolismo ben preciso dietro ad ogni elemento che compone ogni singolo pezzo, perché quello che mi auguro quando una donna sceglie una mia borsa non è che essa sia il complemento perfetto ad un “outfit fashionista”, ma che la trasporti in una dimensione in cui sia artefice del proprio destino.
Se dovessi scegliere tra tutte le tue creazioni, quale borsa ti ha dato più emozioni nel crearla o ti è rimasta maggiormente nel cuore?
L’annaffiatoio di latta era la mia borsa preferita ai tempi del motorino, la appoggiavo tra le gambe e partivo all’avventura. Una borsa entrata a piena regola nella leggenda Caprolatta. Il manifesto di una moda libera e personale, attraverso il quale la lente della fantasia riesce a rendere glamour anche gli oggetti più poveri e quotidiani. La portavo con un nastro intorno e con un grosso fiore a guisa di coperchio. Ancora oggi sono la ragazza con la ‘nnacquatora.
Che cos’è una borsa per Benedetta Bruzziches?
Una borsa per me è una poesia.
Erika Molinari