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Bosnia, quando un censimento riapre vecchie ferite

Creato il 03 ottobre 2013 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

Dal primo al 15 ottobre si tiene il primo censimento nella storia della Bosnia Erzegovina. L’ultimo risale al 1991, c’era ancora la Jugoslavia. Allora la Bosnia si chiamava Repubblica Socialista di Bosnia Erzegovina e aveva una popolazione di 4,4 milioni di persone così ripartita: 43,5% musulmani, 31,2% serbi e 17,4% croati.  In un Paese da secoli caratterizzato dalla convivenza di popoli e religioni diversi, questi dati avrebbero fotografato per l’ultima volta l’estrema complessità del tessuto etnico-confessionale bosniaco. Da allora è tutto cambiato: la guerra degli anni Novanta ha provocato lo sfollamento di metà della popolazione; più di 100.000 persone sono state uccise.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, i bosniaci residenti nel paese sarebbero oggi 3,8 milioni, 600.000 meno di 20 anni fa. Ma secondo Zdenko Milinović, direttore dell’Istituto Nazionale di Statistica della Bosnia Erzegovina, il dato della perdita di popolazione potrebbe essere ancora più rilevante: “Tutte le nostre stime ci portano a situare il numero della popolazione attuale tra i 3,3 e i 3,5 milioni“.

Con queste premesse, contare la popolazione significa inevitabilmente riaprire i capitoli chiusi con gli accordi di Dayton nel 1995.

Secondo Linkiesta:

Gli accordi di pace conclusi a Dayton, nel novembre 1995, avevano un solo scopo: far tacere le armi e preservare, allo stesso tempo, l’integrità territoriale della Bosnia Erzegovina, divenuta ormai uno stato indipendente. I trattati, che gettavano le basi della struttura istituzionale del Paese, non si premurarono di creare una Costituzione che ne garantisse la governabilità. A quello, si pensava, ci si sarebbe arrivati in un secondo momento: l’importante, dopo tre anni di combattimenti, era che le tre fazioni in lotta accettassero di convivere nello stesso Stato.

Negli ultimi vent’anni, la Bosnia Erzegovina è rimasta un paese paralizzato e gravato da pesantissime inefficienze istituzionali. La riforma degli accordi di Dayton, fino ad ora, si è rivelata una missione impossibile. L’equilibrio raggiunto in questi anni rischia però adesso di essere messo a dura prova, per il semplice fatto che il mantra del 1991, l’equazione fondamentale della Bosnia Erzegovina indipendente, verrà rimesso in discussione. Si scoprirà, molto probabilmente, che i Bosgnacchi hanno accresciuto il proprio peso demografico; ma anche che la percentuale dei Croati è diminuita (in molti, avendo anche un passaporto croato, hanno scelto di emigrare), rinforzando così le proposte nazionalistiche di chi propugna, come ’unico modo per tutelare la presenza croata nel paese’, la creazione della terza entità autonoma, l’Herceg-Bosna che le milizie dell’HVO (il Consiglio croato della difesa) tentarono di attuare negli anni novanta.

Verranno al pettine, inoltre, anche i nodi rimasti irrisolti dopo la fine della guerra: quelle realtà che, per molti versi, sono sotto gli occhi di tutti, ma che non sono mai state ufficializzate ’nero su bianco’. Si saprà, quindi, che la Republika Srpska è stata creata attraverso l’espulsione forzata dei non-serbi. Ma anche che Sarajevo, lungi dall’essere quella «Gerusalemme d’Europa» di cui spesso di parla, è diventata una città a schiacciante maggioranza musulmana. O che, ancora, a Mostar non vivono più Serbi, che rappresentavano circa il 18% della popolazione nel 1991.

Dopo ottobre, insomma, la Bosnia Erzegovina sarà costretta a confrontarsi con l’immagine reale di se stessa. Inevitabilmente, questa prospettiva ha fatto sì che si scatenasse un vero e proprio revival nazionalista attorno alla questione. I politici hanno insistito, nonostante le raccomandazioni dell’Eurostat (che coordina il progetto), affinché nel questionario comparissero le domande relative alla lingua, alla religione e all’affiliazione nazionale. Non sarà obbligatorio pronunciarsi, ma da più parti si sono fatti sempre più insistenti gli appelli a rispondere «nel modo giusto». Soprattutto per quanto riguarda i Bosgnacchi, che sono evidentemente quelli che hanno più da guadagnare dal censimento, provando di essere il gruppo etnico dominante.

Il rischio delle elezioni

La situazione, già complicata, è ancora più tesa per il fatto che, probabilmente, il censimento non avrebbe potuto essere convocato in un momento peggiore. La situazione nel paese è andata aggravandosi nel corso degli ultimi anni. Il Consiglio dei ministri, formato a fine 2011 dopo estenuanti trattative durate 14 mesi, non ha saputo finora promuovere le leggi necessarie a smuovere il paese dalla sua profonda crisi economica, nella quale sta soffocando per colpa di un crescente indebitamento internazionale e di un numero di disoccupati che si aggira attorno al 30% della popolazione.

In questo scenario desolante, il prossimo anno si tornerà alle urne, dopo che già le elezioni amministrative del 2012 avevano premiato i partiti nazionalisti. «Il rischio concreto», dice Lajla Zaimović-Kurtović, dell’Ong ’Iniziativa per la libertà d’espressione’, «è che i risultati del censimento siano resi noti in concomitanza con la campagna elettorale». E che, quindi, la situazione possa degenerare. «Non possiamo evitare le pressioni nazionaliste all’interno dell’opinione pubblica», conclude: «ma spero vivamente che non facciano troppi danni. Questo censimento è davvero necessario, per il bene del Paese».

I principali partiti temono questo appuntamento per la possibile affermazione di un concetto di cittadinanza civile, e non nazionale. Per questo non manca chi accus Un nutrito gruppo di organizzazioni non governative, infatti, sta portando avanti attività volte ad invitare i cittadini della Bosnia Erzegovina a definirsi nel censimento liberamente e senza pregiudizi, anteponendo i fattori di identificazione civili e statali rispetto a quelli nazionali.

Secondo l’Osservatorio Balcani e Caucaso:

La Commissione Europea vuole sapere quanti sono i bosniaci, quale il loro livello di istruzione, l’età media, la distribuzione sul territorio, la ripartizione di genere e le altre informazioni che nel resto d’Europa vengono normalmente censite ogni 10 anni. In Bosnia Erzegovina però, al centro del dibattito sul censimento non ci sono questi dati, ma tre domande: la 24, la 25 e la 26. La prima chiede ai cittadini di indicare la propria nazionalità, la seconda la religione e la terza la lingua materna.

Il paradosso, in un paese che si chiama “Bosnia Erzegovina”, è che non ci sarà una casella con scritto “bosniaco erzegovese”. “Abbiamo solo tre popoli costitutivi”, spiega Milinović. “Se uno vuole segnarsi come bosniaco erzegovese può farlo, ma dovrà scriverlo nella casella aperta”.

Oggi però chi sceglie di identificarsi con un’opzione “civica”, rifiutando quella etnica, oltre ad essere una minoranza è anche un cittadino di seconda categoria. Secondo la Costituzione stabilita con gli accordi di pace di Dayton, infatti, gli appartenenti ai cosiddetti tre popoli costitutivi, serbi, croati e bosgnacchi [bosniaco musulmani], hanno più diritti degli altri, in particolare per quanto riguarda l’accesso ad alcune cariche elettive. Un meccanismo di rappresentanza etnica sovrintende anche all’impiego pubblico. Le quote si basano su proiezioni che si rifanno al censimento del 1991. Questa versione “etnica” della democrazia è uno degli aspetti che rendono particolarmente delicato l’attuale censimento.

A oltre vent’anni dalla fine della guerra la Bosnia non riesce ancora a voltare pagina. Il censimento è stato solo l’ultimo di una lunga lista di elementi che, nel corso del 2013, hanno risvegliato i vecchi fantasmi del conflitto. Il 6 settembre la Corte suprema dell’Aia ha confermato la sentenza che accertava la responsabilità dello stato olandese nel massacro di Srebrenica, riaprendo uno dei capitoli più dolorosi della guerra. Il 12 settembre il Parlamento Europeo ha votato un dispositivo di legge che rende possibile il ritorno temporaneo dei visti per i cittadini dei Balcani occidentali in situazioni d’emergenza. La misura riguarda in particolare la Bosnia Erzegovina, la Serbia e la Macedonia, Paesi che fanno parte della cosiddetta “lista bianca” di Schengen e da poco beneficiano di un sistema agevolato di visti.
Nei mesi scorsi abbiamo assistito alla cosiddetta Beboluzione, la protesta di migliaia di cittadini contro un parlamento incapace di produrre una nuova legge che attribuisse i numeri d’identificazione (l’equivalente del nostro codice fiscale) ai bambini nati dopo il 12 febbraio di quest’anno, quando la legge precedente – che in ossequio agli accordi di Dayton prevedeva i comuni recassero la doppia denominazione in serbo e in bosniaco – è stata sospesa dalla Corte costituzionale.
Pensiamo poi alla Vijećnica, l’ex biblioteca nazionale della Bosnia Erzegovina e simbolo della sua capitale Sarajevo: distrutta dai serbi nel 1992, è stata ricostruita con cinque milioni di euro stanziati dall’UE. Ma la sua rinata presenza continua ancora a dividere i nazionalisti (serbi, croati o musulmani che siano) che premono per una maggiore autonomia da quanti invece vorrebbero veder risorgere un emblema della storia comune del Paese.

Infine, c’è una relazione di diretta proporzionalità tra la stasi politica e quella economica. La classe dirigente non fa più riforme, l’economia non cammina, la prospettiva europea rimane lontana. Sarebbero addirittura circa mille le leggi da emendare per adeguare l’ordinamento a quello comunitario, ma nessuno provvede. L’unico piano che in questi anni è andato avanti è stato quello delle privatizzazioni: mezzo milione di disoccupati, una valanga di aziende chiuse e un numero imprecisato di persone arricchite ne sono stati il disastroso risultato.


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