Eclettico, innovatore e sempre pronto a reinventarsi, un po’ come i personaggi dei suoi film. Il suo talento? Spiazzare lo spettatore. La sua ossessione? La psiche umana. Il suo amore? Il cinema, perché pensa, “non c’è nulla di più bello che immergersi in una sala cinematografica quando le luci si abbassano”. Lui è Brad Anderson, il regista di “Session 9” e “L’uomo senza sonno”, tanto per intenderci, e al Festival di Roma porta nella sezione Mondo Genere il suo “Stonehearst Asylum”, ennesimo esperimento sui meandri della mente, che trasforma un racconto di Edgar Allan Poe in un gioco di ruolo.
Un thriller tratto da un racconto di Allan Poe, forse il meno noto. Come mai questa scelta?
E’ stato bello portare sullo schermo uno dei racconti meno conosciuti di Edgar Allan Poe, “Il sistema del dr. Catrame e del prof. Piuma”; era un’occasione per portare Poe al grande pubblico.
E la scelta del cast?
Non avremmo potuto sperare in un cast migliore, a partire da Ben Kingsley e Michael Caine che in questo film hanno avuto l’occasione di lavorare di nuovo insieme quasi trent’anni dopo “Senza indizio”. All’inizio avevo immaginato Kingsley nei panni del Dr. Salt mentre Michael Caine avrebbe dovuto interpretare Silas Lamb, poi invece decidemmo il contrario.
Quindi è proprio il cast che voleva?
Assolutamente sì. In genere quando devi scegliere il cast di un film fai una lista di attori possibili, io invece ho avuto l’opportunità di scegliere quelli che volevo.
“Stonehearst Asylum” riesuma la tradizione del genere hammer. Era nelle sue intenzioni sin dall’inizio?
Mi è sempre piaciuto quel tipo di film horror che usano come base i romanzi di Poe. Stilisticamente però volevamo fare qualcosa di diverso, la nostra intenzione era realizzare un film con uno stile poco eccessivo, che doveva valere per la caratterizzazione dei personaggi e per le interpretazioni. Non doveva essere lo stile a caratterizzare questo film, ero curioso di vedere cosa sarebbe successo con questo cast.
È evidente che la psiche umana la interessa molto. Questa volta però l’ha indagata in modo diverso. In questo genere di film alla fine ci sono sempre persone che dicono che la pazzia non esiste, qui invece abbiamo una doppia visione delle cose. È stata una sua idea?
Il racconto da cui è tratto il film narra di un medico, Edward Negate, che va in un manicomio per studiare i metodi usati dal sovrintendente per guarire i suoi pazienti. Scrivendo la sceneggiatura Joe Gangemi ha immaginato i protagonisti di questa storia ispirandosi al suo amore per Edgar Allan Poe, poi quando abbiamo iniziato a girare abbiamo cercato di trovare insieme un modo per individuare la sensibilità tipica di Poe. In questa storia ci sono tanti elementi horror, ma si parla anche di amore; soprattutto mi piaceva l’idea di una donna che non riesce ad appartenere a nessun mondo possibile. Ci si chiede alla fine se Edward e Eliza siano sani di mente o meno. E la mia risposta è: che importa? Se si amano forse non serve altro.
Il film è stato prodotto da Avi Lerner, fondatore della Millennium che da sempre realizza film con grandi budget. Come si è trovato?
Sì, è vero. Per loro che in genere producono film molto costosi come “I mercenari” o “John Rambo” si è trattato di un film un po’ diverso, e mi è piaciuto il fatto che ci volessero mettere la stessa cura e lo stesso talento impiegato nei loro progetti più grandi. “Stonehearst Asylum” si rivolge a un pubblico diverso dal loro solito. Abbiamo girato a Sofia su un set dove la difficoltà principale è stata creare un mondo vittoriano in un ambiente dai contorni quasi sovietici.
Ci sono molte similitudini con alcuni suoi film precedenti: pensiamo a “Session 9” o a “L’uomo senza sonno”. Nessuno dei protagonisti sembra essere assolutamente buono.
I personaggi che mi attirano sono sempre caratterizzati da un segreto che non hanno ancora scoperto e rivelato nemmeno a se stessi. Ne “L’uomo senza sonno” ad esempio, Christian Bale è responsabile di aver investito e ucciso un bambino, ma è immerso nella verità che si è creato; solo alla fine scopre ciò che ha fatto. Lo stesso succede in “Session 9”, dove uno dei personaggi ha sterminato un’intera famiglia e anche qui scopriamo solo dopo che il sovrintendente è in realtà un paziente del manicomio. Ci sono personaggi che non sono onesti con loro stessi e che solo al momento della catarsi potranno pagare il prezzo del loro reato; mi interessano queste figure perché trovo siano utili a raccontare delle storie interessanti: si rendono conto della verità e di quello che hanno commesso alla fine, mi affascina tutto questo. Non è un caso che il mio preferito sia “A Venezia… un dicembre rosso shocking” di Nicolas Roeg.
In un momento in cui l’America continua a realizzare film facilmente identificabili, lei insiste invece nel rinnovarsi, sfuggendo a qualsiasi tipo di categorizzazione. Non crede che possa essere anche un rischio il non essere identificabile in nessuna categoria produttiva?
Faccio film e mi interessano le storie che in quel momento della vita mi affascinano, mi appassionano. Francamente come regista non voglio sentirmi legato a un genere e ripetermi, mi piacciono le sfide e l’idea di raccontare sempre nuove avventure, che in fondo è quello che mi diverte del mio lavoro. Forse per la carriera sarebbe meglio fare sempre la stessa cosa, ma i miei film non hanno a che fare con la mia carriera, ogni film deve esser fatto con amore Mi faccio guidare dai miei interessi e dalle mie passioni. Adesso ad esempio sto lavorando a una nuova storia ambientata nel Perù del ‘700, si ispira ancora ad una volta a un libro ed è una storia d’amore.
Oggi a tenere banco è soprattutto la televisione e il suo linguaggio in continua evoluzione. Ritiene che la Tv stia superando il cinema?
Non sono necessariamente d’accordo su questo punto. Ci sono bellissime serie e di alta qualità come “The Wire”, “Breaking Bad” , “Trono di Spade”: è innegabile che siano tutti prodotti di elevata qualità visiva . Anche io ho preso parte ad alcuni lavori per la tv, ma si è trattato di singoli episodi, mi piacerebbe invece un giorno fare ciò che hanno fatto alcuni registi con serie di grande successo. La cosa bella e interessante della televisione è che hai più tempo per raccontare una storia e su piattaforme come Netflix si ha anche un maggiore controllo creativo. È vero: non esiste più una netta demarcazione tra cinema e tv, ma credo che il cinema sia altro rispetto alla televisione: un film è un’esperienza diversa, è qualcosa che ha un inizio e una fine, quante stagioni devi aspettare invece per capire il senso di una serie? Non penso ci sia nulla di più bello che immergersi in una sala cinematografica quando le luci si abbassano, non hai distrazioni rispetto a quando stai sul divano di casa davanti alla Tv.
di Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net