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Brevissimi appunti su Gramsci, di Francesco Ravelli

Creato il 02 gennaio 2013 da Conflittiestrategie

Scritto da: Giuseppe Germinario

Brevissimi appunti su Gramsci

Brevissimi appunti su Gramsci, di Francesco Ravelli

I luoghi dei Quaderni del carcere nei quali si fa riferimento allo Stato conducono a una serie di problemi. Si pensi solo alla sua funzione nell'ordinamento borghese, al rapporto fra politica ed economia o, ancora, al nesso dialettico di unità e distinzione che intercorre con la società civile. Su quest'ultimo punto, nel Q. 6, Gramsci scrive "che per Stato deve intendersi oltre all'apparato governativo anche l'apparato "privato" di egemonia o società civile"[1]. Egli delinea i termini generali dell'opposizione fra lo "Stato - veilleur de nuit" e lo "Stato etico" o "intervenzionista": il primo, lo "Stato carabiniere", "vorrebbe significare uno Stato le cui funzioni sono limitate alla tutela dell'ordine pubblico e del rispetto delle leggi" (Q. 26), il secondo è "etico" "poiché si riferisce piuttosto all'attività, autonoma, educativa e morale dello Stato laico [...]" (Q. 6) o "intervenzionista" in quanto vicino alle correnti del protezionismo economico. Le tre soluzioni, come si intuisce, postulano il primato rispettivamente della legalità, della morale e dell'economia, però la cosa più importante è notate il carattere complesso dell'egemonia. Si prenda ancora il Q. 6:

"[...] è da notare che nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel senso, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione)".

È bene non dimenticarsi che per Gramsci la distinzione fra lo Stato e la società civile è di natura metodologico-dialettica. Forza e libertà, coercizione e civiltà, non si escludono reciprocamente, ma sono considerati all'interno di una relazione. Se da un lato, dunque, Gramsci prospetta un esaurimento dell'aspetto coercitivo dello Stato in quella che lui chiama "società regolata", dall'altro va evidenziato che proprio la riconduzione di elementi della società civile nel concetto di Stato permette l'estensione del momento egemonico a quegli organismi e a quegli istituti "volgarmente" definiti, dai liberali, come privati. Detto altrimenti, nella stessa cosiddetta società civile, di certo ben lungi in Gramsci da essere l'insieme delle attività meramente private (v. Q. 26, dove si legge che la società civile "è anch'essa "Stato", anzi è lo Stato stesso"), il consenso è forza, potere, è, come riportato, egemonia corazzata di coercizione. Trascurare questo aspetto del pensiero di Gramsci non è solo un'operazione fuorviante messa in atto dagli apologeti della purezza ideale e culturale, ma un vero e proprio impedimento di quella generale riconsiderazione del problema dello Stato su cui ci si dovrà soffermare ancora. In proposito Gianfranco La Grassa ha osservato che occorre passare

"[...] dallo Stato in quanto apparato [...] alla sua più corretta interpretazione quale campo di battaglia in cui scorrono flussi strategico-conflittuali che poi ( in senso logico, sia ben chiaro) si condensano negli apparati e nei diversi "attori" [...] della lotta nelle sfere sociali, della politica, dell'ideologia-cultura, dell'economia [...]"[2].

Una volta fatta chiarezza sull'entità non solo culturale dell'egemonia gramsciana, si tratta di andare ancora più in profondità e di riconoscere come centrale la lotta politica per la supremazia, sia interna a uno Stato sia in relazione al contesto regionale e mondiale.

Torniamo al testo. Nel Q. 14, discutendo del rapporto fra morale e politica, Gramsci fissa due punti: 1) l'assurdità di giudizi morali in un conflitto; 2) la legittimità del giudizio politico, l'unico possibile, in un conflitto. Da qui discende l'idea che immoralità, in politica, significa essere distanti dai fini preposti e che l'uomo politico può essere giudicato esclusivamente "dal fatto che ottiene o no dei risultati positivi o evita un male e in questo può essere necessario l'"operare equamente", ma come mezzo politico e non come giudizio morale". Qui il realismo di Gramsci, ossia l'autosufficienza del politico, è forte.

Anche il Q. 13 ci può interessare. Machiavelli insegna un'educazione politica positiva, "di chi deve riconoscere necessari determinati mezzi, anche se propri dei tiranni, perché vuole determinati fini", che sono indipendenti dalla morale e dalla religione. La politica come volontà è il primo, quindi parziale, momento della sovrastruttura, già nel quale, tuttavia, si coglie un'alterità rispetto all'utile economico. La politica, in questo senso, addirittura supera l'economia, poiché essa fa "entrare in gioco sentimenti e aspirazioni nella cui atmosfera incandescente lo stesso calcolo della vita umana individuale ubbidisce a leggi diverse da quelle del tornaconto individuale ecc." (Q. 8).

Infine, dobbiamo fare un cenno alla questione della guerra. La guerra è una fase della politica, la sua continuazione in altre forme ed è anche, per Gramsci, ciò che fornisce la misura per stabilire le caratteristiche di una grande potenza. "È grande potenza quello stato che - entrato in un sistema di alleanze per una guerra - (e oggi ogni guerra presuppone dei sistemi di forze antagonistiche) al momento della pace è riuscito a conservare un tale rapporto di forze con gli alleati da essere in grado di far mantenere i patti e le promesse fatte all'inizio della campagna" (Q. 13). L'egemonia di uno Stato, dunque, è tale se nel determinare la volontà degli altri Stati riesce a formare un sistema e un equilibrio di potere. L'imprimere autonomia all'attività statale significa allora far subire agli altri la propria egemonia. Il discorso va considerato in vista di una guerra, che tuttavia la grande potenza, almeno per ciò che concerne il conseguimento di determinati vantaggi, può vincere senza combattere. Per tutto questo sono necessarie una grande ideologia, una certa capacità di esercitare pressioni verso l'esterno e una buona unità del gruppo sociale dominante.

Francesco Ravelli (dicembre 2012)

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