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Brian Michael Bendis, gli X-Men e il diritto alla delusione

Creato il 07 luglio 2014 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco
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La conclusione de La battaglia dell’atomo1, all’interno della run di sugli , lascia un profondo senso di sconforto: “È tutto qui?“, è la reazione immediata, a cui segue, per mitigare la frustrazione “In, fondo, che cosa altro ci si poteva aspettare?“.

Piuttosto che come considerazione conclusiva (e consolatoria), vale la pena prendere quest’ultimo pensiero, apparente buon senso difensivo, come spunto per riflettere sul rapporto lettore-fumetto seriale infinito.

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È giusto rinunciare all’aspettativa di qualità narrativa assoluta (dove con “assoluta” intendiamo svincolata da considerazioni extra narrative, in particolare commerciali) nei confronti di un’opera? Che cosa implica un eventuale abbassamento della soglia di soddisfazione? Inserire nel nostro rapporto con un’opera le motivazioni di business che partecipano alla sua creazione è davvero un segno di consapevolezza o qualcosa di diverso? E che conseguenze può avere questo atteggiamento?

Due gli elementi da sottolineare nel caso specifico degli X-Men di Bendis: una qualità tecnica di alto livello, sia nei testi, sia nei disegni (Stuart Immonen su I nuovissimi X-Men, Chris Bachalo su Gli incredibili X-Men) e una totale gratuità della vicenda. Detto altrimenti, una tattica brillante condotta in assenza di qualsiasi strategia.
Grazie alle loro capacità tecniche, gli autori confezionano singoli numeri più o meno godibili, con non pochi spunti degni di sviluppo e alcune scene esemplari nel richiamare suggestioni dalla lunga storia degli X-Men. Il ritmo delle 24 pagine è cadenzato da colpi di scena e cliffhangers di chiusura, scene di azione e battute ironiche, sguardi intensi e pose statuarie.
Gli X-Men di Bendis si leggono insomma con certo qual piacere e compiacimento.
Ma, dopo la chiusura dell’albo, lasciano poco dietro di sé.
Brian Michael Bendis crea ripetutamente l’impressione che qualcosa d’importante e fondamentale stia per accadere. Dove “importante” e “fondamentale” sono aggettivi pesati su una storia prestigiosa e ricca di gemme. Ispira, cioè, elevate aspettative.
Non per niente nelle pagine de La battaglia dell’atomo si intrecciano tre linee temporali e si trovano a confronto gli X-Men del presente (adulti), quelli delle origini (adolescenti), quelli del futuro (vecchi).
Però, poi, niente accade di importante, niente di fondamentale. Tutto si chiude fra battute e scazzottate.
Ecco allora che le nostre riflessioni si muovono lungo un’orbita definita da due domande: quali aspettative è legittimo avere nei confronti di una storia che appartiene a un seriale (tendenzialmente) infinito? È accettabile, dal punto di vista del lettore, la scelta narrativa di Bendis?

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Diritto alle aspettative?

Che aspettative siamo in diritto di nutrire nei confronti degli X-Men? Esiste qualcosa di simile a un “diritto alla delusione”? Da lettori accorti, conosciamo le regole della narrazione seriale, i modelli ciclici, la storia segnata da saghe, autori, successi e insuccessi. Conosciamo il ruolo che hanno nelle politiche editoriali delle case editrici e nella carriera degli autori. Questo è il bagaglio che portiamo con noi quando affrontiamo un’avventura degli X-Men, con gli X-Men. Che ruolo ha nel nostro approccio alla lettura?

Le aspettative nei confronti di un’opera derivano dalla conoscenza pregressa che ne abbiamo (che sia vera o presunta, non fa differenza). Nel loro formarsi entrano in gioco la conoscenza del genere, degli autori, della tematica, della linea editoriale, eccetera. Spesso non sono tanto una riflessione cosciente che precede la lettura, quanto uno degli elementi che ne determina l’effetto su di noi e di cui ci rendiamo conto a posteriori, seppure ci domandiamo perché quella storia ci sia piaciuta o meno.

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Le aspettative sono una specie di soglia di valutazione fissata in base a una serie di metainformazioni sull’opera.
Allargando la prospettiva, considerando i vari attori coinvolti nella vita di un’opera, abbiamo che ciascuno di essi nutre aspettative specifiche nei suoi confronti: autori, produttori, editori e lettori le definiscono entro contesti diversi, che non sono poi altro che i rispettivi campi di attività. Fra esse si generano tensioni ed effetti di retroazione (come scritto sopra, le aspettative influenzano la ricezione dell’opera, quindi la sua valutazione e in particolare il suo livello di successo commerciale) che contribuiscono all’evoluzione di ciascuno degli attori e, di conseguenza, del fumetto in generale.

A questo punto, è importante evitare la confusione fra la consapevolezza della pluralità di aspettative, che riflette pluralità di obiettivi e complessità del mondo del fumetto, e l’assunzione delle motivazioni altrui, che è segnale di un equivoco fondamentale. Quest’ultima porta infatti alla distorsione del rapporti fra gli attori e, di conseguenza, dell’evoluzione e struttura del mondo del fumetto. In altre parole, il lettore che si accontenti di un’opera, che semplicemente è conforme alle migliori pratiche dal punto di vista della produzione, lascia a editori e autori la scelta sui criteri che determinano esistenza e successo, abdicando così ad una delle proprie responsabilità principali (qui assumiamo che i lettori non partecipino al processo produttivo e quindi possano agire solo in quanto consumatori).

Quindi, anche nel campo del fumetto seriale esiste il diritto/dovere del lettore alla delusione e alla richiesta di qualità assoluta: la comprensione delle motivazioni che hanno portato a un’opera come la run di Bendis sugli X-Men, non deve essere elemento di giustificazione, bensì aiutare a contestualizzarla in maniera appropriata secondo la pluralità di possibili campi d’azione in cui si svolge il suo ciclo di ideazione, produzione, ricezione.

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Il caso Bendis X-Men

Da una parte la run di Bendis è perfettamente conforme alle regole editoriali e soddisfa le aspettative della produzione, dall’altra, dal punto di vista della richiesta di una qualità assoluta, è assolutamente insoddisfacente e deludente.
Caratteristica principale, segnale e sintomo plateale di impotenza, è il suo estremo manierismo, marcato dalla sovrabbondanza di elementi potenzialmente fertili, proposti e sistematicamente abbandonati in favore di soluzione a effetto immediato: quanto si potrebbe dire dei nuovi mutanti, dispersi in mezzo agli umani? Bendis, dopo brevi allusioni, ci offre solo salvataggi spettacolari e scenette comiche. Così, la montagna degli intrecci temporali, invece che vertigine trasmette solo un senso di confusione e partorisce il topolino dello scioglimento che leggiamo nell’ultimo numero de La battaglia dell’atomo, che più che interlocutoria o non risolutiva sembra semplicemente frutto della perdita di controllo da parte dello scrittore sulla fabula.

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Nella prospettiva dell’equivoco dei ruoli illustrata in precedenza, merita mostrare la presenza di tattiche narrative che quell’equivoco favoriscono. La più evidente è quella che porta al primo livello di lettura le regole narrative che guidano la scrittura e la produzione, che Bendis applica tramite l’uso della parodia, che, essendo parodia degli X-Men in una storia degli X-Men, possiamo indicare come autoparodia.

All-New_X-Men_16_Second_Printing_Variant
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In questo senso, l’autoparodia, lungi dall’essere riflessione critica e messa in discussione di luoghi comuni e stereotipi, è dal punto di vista formale un manierismo, poiché replica quello che è diventato ormai un luogo comune nelle serie supereroiche (altro è il senso della parodia in un lavoro come Nextwave di Warren Ellis – leggi le recensioni di Alberto Casiraghi  ed Ettore Gabrielli -, tanto per rimanere nel mainstream).
Dal punto di vista funzionale, infatti, il suo compito è di cercare la complicità del lettore, adescarlo per indurlo ad abbracciare le motivazioni della produzione, cioè precisamente a cambiare il proprio ruolo, dandogli l’illusione di partecipare al processo produttivo, di essere, per così dire, dall’altra parte della barricata. Questa illusione di condivisione intende annullare la distanza fra scrittura e lettura, per generare un cortocircuito che tamponi l’esercizio critico. Si badi, non si intende sostenere che l’autore Bendis usi l’autoparodia con il fine di favorire la confusione dei ruoli, ma che uno degli effetti dell’autoparodia è indurre la confusione dei ruoli.
Dalla richiesta di qualità assoluta, si scade in quella d’identità: l’opera ci conferma in quello che sappiamo, nel nostro essere appassionati conoscitori di un universo finzionale, il cui scopo è diventato ospitare storie che, celebrando se stesse, celebrino anche la competenza del lettore. Così si toglie all’opera la capacità di essere usata come martello contro i limiti tematici e di linguaggio di genere (vedi eventualmente Chris Claremont e Grant Morrison) e la si riduce a specchio per il compiacimento di chi legge, così come lo slogan “Cyclope is right” si riduce a una frase cool su una maglietta (franchise to franchising?).
Ovvero al “Tutto qui?” che accoglie la fine della storia.


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