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Bright Future (Kiyoshi Kurosawa) ★★½ /4

Creato il 26 febbraio 2011 da Eda

Bright Future (Kiyoshi Kurosawa)   ★★½ /4Akarui mirai, Giappone, 2003, 115 min.

Kurosawa Kiyoshi è stato uno dei padri fondatori nonchè il principale teorico del “nuovo horror giapponese” degli anni Novanta, genere nel quale ha realizzato pellicole come Cure, Charisma e Pulse che approcciavano in maniera innovativa la materia. Più di recente si è affermato definitivamente in Occidente vincendo Un certain regard a Cannes nel 2008 con Tokyo Sonata, storia di una famiglia allo sfascio il cui capofamiglia si trovava improvvisamente senza lavoro. Questo Bright Future del 2003 si può collocare come ideale ponte tra le due fasi: non è un horror, anche se la presenza di un fantasma si aggira costantemente nei luoghi dell’azione e non è un ritratto familiare, almeno non nel senso classico del termine.

Purtroppo sono costretto a svelare un pò di passaggi della trama (racchiusi comunque nella prima mezz’ora) per poter chiarire meglio il contesto: Nimura e Mamoru (Joe Odagiri e Asano Tadanobu, ottimi entrambi) lavorano piuttosto apaticamente in una fabbrica di oshibori (i mini asciugamani caldi che vengono dati ad ogni cliente nei ristoranti) e sono presi in simpatica dal capo che cerca di creare un rapporto più intimo con i due, ma fallisce. Anzi, una notte, senza apparente motivo, Mamoru uccide il capo e la sua famiglia. Resa completa testimonianza, viene messo in prigione, dove si suicida. Il vero film inizia ora, e vede protagonisti Nimura e Shin’ichiro – padre di Mamoru (Tatsuya Fuji, il mitico interprete de L’impero dei sensi di Oshima) – e il rapporto che si sviluppa tra i due.

Bright Future (Kiyoshi Kurosawa)   ★★½ /4
Girato in digitale, con una fotografia che vira costantemente sui toni di un azzurro/grigio piuttosto cupo, si tratta ancora una volta di un racconto sull’apatia metropolitana (pur essendo diverso sia da Air Doll che da Nightmare Detective) ma, ancora più di questo, è la messa in scena del confronto tra due generazioni che non riescono, e spesso non vogliono, capirsi. I padri, rimasti legati alla tradizione e che svolgono lavori ormai obsoleti (il padre di Mamoru va in giro col suo camioncino per recuperare elettrodomestici da riparare), avendo dedicato la propria vita al lavoro non sono mai realmente entrati in contatto con i propri figli e l’unico aiuto che pensano di poter dare è quello economico. I giovani invece dovrebbero rappresentare il bright future (il futuro radioso del titolo), ma Kurasawa sembra suggerirci che non ci sia molto di luminoso nella nuova generazione, se la si identifica con i giovani teppistelli con i quali si chiude il film mentre appare per la prima volta in sovraimpressione il titolo. Spinti (non) ideologicamente da apatia, nichilismo e corto circuiti di valori (il gruppo di cui sopra indossa una maglietta raffigurante Che Guevara) ricordano i giovani dello Tsukamoto di Bullet Ballet: cercano il thrill, la scarica d’adrenalina, per sentirsi vivi in una società che non sentono propria e che quindi rigettano, ma sono allo stesso tempo i soggetti più emotivamente fragili quando si trovano a dover affrontare davvero questa realtà.

Bright Future (Kiyoshi Kurosawa)   ★★½ /4
La pellicola mantiene per tutta la durata un suo ritmo peculiare, fatto di ellissi temporali e narrative, con una concatenazione degli eventi che di rado segue la logica causale. Ci sono sicuramente alcuni avvenimenti che lo spettatore occidentale troverà di difficile spiegazione, ma il cinema di Kurosawa parla per immagini e non ha paura di confrontarsi con i simbolismi, anche se non sempre di facile lettura. E’ facile infatti vedere la medusa velenosa che Mamoru alleva nel suo acquario, poi lasciata “in eredità” a Nimura cercando di farla ambientare all’acqua dolce dei fiumi di Tokyo, come il simbolo di questa generazione e della sua difficoltà di inserimento nella società. Più difficile, però, è capire cosa intendesse dire il regista con la proliferazione delle meduse e il loro “pellegrinaggio” verso il mare, al di là di un semplice ritorno al proprio habitat naturale (nel caso di Mamoru, però, a cosa corrisponderebbe? La morte?), pur rimanendo questa una delle immagini esteticamente più belle del film. Sembra quasi che la narrativa sbilenca del film voglia echeggiare l’incomunicabilità dei personaggi di cui è popolato: una soluzione interessante e ambiziosa, ma non sempre riuscita. Il cinema di Kurosawa rimane comunque un oggetto affascinante e sarà interessante vedere a cosa approderà dopo l’apparente passaggio ad un cinema svincolato dalle dinamiche di genere.

EDA


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