Melissa Bassi
Ho assistito da ieri a oggi, e con una certa rabbia, al solito rituale dei giudizi sparati a caldo, sull’ennesima tragedia che ha investito l’Italia e che era in qualche modo nell’aria. Tant’è che qualcuno l’aveva preannunciata, dopo l’attentato al rappresentante dell’Ansaldo, Adinolfi. Si è anche parlato della novità di questo gesto folle, che, in realtà, ci ricorda tanti altri analoghi episodi della nostra storia criminale: a Trieste - ci dice Claudia Cernigoi, storica triestina - la scuola elementare slovena di San Giovanni fu due volte oggetto di attentati, nel 1969 e nel 1974. Nel primo caso un ordigno avrebbe dovuto esplodere all’ora di uscita dei ragazzi ma il congegno era difettoso e successe un miracolo. Nel secondo la bomba esplose quando la scuola era vuota.
Lo scorso mese, fa notare Marco Barone, il 5 aprile, viene spedita alla sede della Rai di Genova situata in Corso Europa, 125, una lettera, con polvere di esplosivo. Tra l’altro si fa riferimento alla strage di Capaci, accaduta il 23 maggio nonché a quella di Borsellino, il 19 luglio, e a Moro ucciso nel mese di maggio 1978. Sono seguiti, poi, un incidente che ha coinvolto un pullman di carabinieri e l’attentato ad Adinolfi.
E, come ai tempi di Piazza Fontana, sono saltati fuori gli anarchici. Questa volta gli anarchici insurrezionalisti che si sono tirati dietro tutti i movimenti, in primis i No Tav, e i centri sociali. Ma chi sono questi anarchici? Nessuno li conosce e difficile è anche individuarne i connotati. Perché? C’è una sola risposta. Perché hanno la funzione di essere evanescenti. Se fossero concreti la loro presenza richiamerebbe subito quella del potere che essi evocano e combattono. Ma qui non c’è un potere da combattere. Almeno visibile. C’è il corpo dilaniato di una ragazza di sedici anni poco prima sorridente, quello di Melissa Bassi di Mesagne. Il medio centro della provincia di Brindisi dove è nata la Sacra Corona Unita. Ma l’attentato contro l’istituto professionale Francesca Morvillo Falcone non sembra avere molto a che fare con questa organizzazione mafiosa. Prima di tutto perché, dopo l’operazione del 9 maggio che vide l’arresto del gruppo dirigente della cosca, nessun mafioso si sarebbe sognato di rincarare la dose repressiva con un gesto come quello a cui abbiamo assistito. E poi perché la mafia non usa delle bombole di gas per la cucina o per il riscaldamento, per fare i suoi attentati. Ha il tritolo, il tritolo di cava, quello che fa saltare in aria le montagne. Del resto anche i legami che sembrano esserci tra Sacra corona unita e gruppi terroristici dei paesi balcanici, avrebbe evitato il ricorso a un ordigno rudimentale che chiunque avrebbe potuto fabbricarsi in casa. Collegando tre bombole a un semplice timer.
Detto questo, però, occorre precisare, che non è per niente vero che la mafia non avrebbe usato come obiettivo dei ragazzi, o una scuola. A Portella della Ginestra furono molti i ragazzi e le ragazze ad essere colpiti. Addirittura una madre che portava in grembo suo figlio. Il piccolo Giuseppe Di Matteo fu sciolto nell’acido. E a Palermo era ancora un ragazzo, Claudio Domino, l’alunno di una scuola, figlio del gestore di una ditta di pulizie dell’aula-bunker del maxiprocesso a Cosa Nostra (1986). Un killer gli si avvicinò e gli sparò due colpi alla testa.
Quando deve compiere un crimine la mafia non guarda mai alla carta di identità delle persone, al loro certificato anagrafico, o al sesso. Specie quando l’ordine è quello di colpire dei simboli o nel mucchio. A Piazza della Loggia, a Brescia, nel maggio 1974, delle bombe esplodono durante un comizio antifascista. Muoiono degli adulti, ma questo risultato è casuale e probabilistico. Potevano esserci dei bambini. Questa volta il simbolo è più mirato: sono i ragazzi, le scuole, a prescindere da come si intitolano, visto che in Italia esistono centinaia di Istituti intitolati a vittime di mafia, a Francesca Morvillo, a Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Falcone, a Borsellino o a Emanuela Setti Carraro.
Ci sembra, dunque, che le strane coincidenze, la marcia della legalità, l’intitolazione alla Morvillo dell’istituto, la vicinanza di Mesagne, gli arresti avvenuti, le precedenti attività degli anarchici, la rudimentalità dell’ordigno, siano solo le forme più evidenti di un depistaggio messo in atto per coprire in partenza un progetto ambizioso, tanto antico quanto nuovo e adeguato ai tempi: scatenare la paura, far rintanare la gente, far scorrere sulle nostre teste decisioni prese “altrove” su cosa dobbiamo essere, e come dobbiamo o non dobbiamo rivendicare i nostri diritti. Un’operazione da manuale dell’intelligence della propaganda occulta.
Giuseppe Casarrubea