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Bunju è dono / Spazio Missionarietà

Creato il 17 dicembre 2014 da Marianna06

 

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Perché parlare di dono per Bunju? Perché, in effetti, Bunju, periferia di Dar es Salaam, oggi zona di espansione urbanistica, è dono  tanto per coloro che l’ abitano (l’inurbazione è abbastanza recente) che per quelli del circondario, che riescono a raggiungerlo e che, per questo, sono disposti a macinare pure qualche chilometro di strada in più.

E lo è un po’ per tutti i dintorni grazie, soprattutto, a quel complesso straordinario, e di grande utilità, che è stato edificato, anni addietro, dai missionari della Consolata e dai benefattori loro amici e che prende il nome di Consolata Mission Centre .

E dico subito che la mia non è  piaggeria. Se ne racconto è perché delle cose “belle” non bisogna mai tacere.  

Cerchiamo adesso di scoprire  cos’è, in concreto, il Consolata Mission Centre  e cosa c’è di  autenticamente “bello”, per cui merita parlarne.

Accanto alla chiesa, un edificio assai moderno ma  molto francescano  negli arredi, nata per le funzioni liturgiche degli stessi missionari ma anche per celebrazioni di particolari ricorrenze  e/o eventi, che possono riguardare la chiesa locale, e ancora accanto alle ampie aule, nelle quali s’impartiscono lezioni a giovani  seminaristi e non, e dove si tengono conferenze su molteplici tematiche formative, accanto ai laboratori d’informatica, alla biblioteca, agli uffici (in uno di questi c’è anche la redazione di Enendeni, la rivista periodica in swahili dei missionari della Consolata per il Tanzania) e, infine,alle camere e al grande refettorio per gli ospiti di passaggio, che giungono a Bunju per ritiri di qualche giorno,ci sono all’aperto bei  viali e  spiazzi con splendidi e curatissimi giardini.

E gli alberi e le piante vanno dalle  più modeste, come l’albero di Cinquanta, a quelle esotiche autoctone di un certo pregio.

E non mancano i tipici ripari africani dal tetto di paglia, all’ombra dei quali  è bene sostare quando il sole impietoso non dà tregua.

E molti giovani ospiti, i più disinvolti, cibattine, t-shirt, pantaloncini, lo fanno di consuetudine.

L’accoglienza, insomma, non mancherà a colui o colei che, dopo aver visitato la popolosa e caotica Dar es Salaam, magari con un salto in Procura per una sosta, decidesse di fare una capatina a Bunju.

Questi o questa potrà così conoscere un’opera messa in piedi, anno dopo anno, con certosina pazienza, da padre Giuseppe  Inverardi e dall’efficienza di altri missionari e missionarie della Consolata, che lo hanno coadiuvato.

Uomini e donne, che non si tirano mai indietro quando c’è qualcosa d’importante da fare.

Perché a loro piace “fare bene il bene”, proprio come diceva sempre l’Allamano.

Padre Giuseppe, un lombardo fattivo quanto riservato, oltre che uomo e sacerdote di grande spiritualità,dopo essere stato per un certo tempo superiore generale dei Missionari della Consolata, un incarico molto impegnativo e avere girato, quindi , per lungo e per largo, nelle missioni dei differenti continenti, in visita a i suoi confratelli, ha accettato, obbediente come lo è e lo deve essere un qualsiasi religioso, di fare missione in Tanzania.

Prima, per alcuni anni è stato a Makambako , poi a Iringa quale superiore regionale e, infine, a Dar es Salaam dove è nata l’idea di costruire un “qualcosa “ a Bunju.

Noi, oggi, certamente apprezziamo il “bello” realizzato.  

Ma con difficoltà, a essere sinceri, riusciamo a calarci in quello che è stato l’impegno profuso per la sua realizzazione.

 E cioè il tempo impiegato a chiedere collaborazione e solidarietà ad altri. Le pastoie burocratiche da aggirare nei vari uffici in loco. I rallentamenti e  le soste forzose per mancanza di quattrini. Le notti insonni a lambiccarsi il cervello alla ricerca delle modalità giuste per la ripresa e la conclusione dell’opera.

Tutte cose che paiono  ininfluenti a chi non è addentro ma che, allora, agli operatori del progetto facevano tremare vene e polsi, nonostante la loro grandissima fiducia nella Provvidenza.

Ritornando al concetto di dono, riferito a Bunju, che a me piace leggere  come “grazia”, perché “tutto è grazia”, persino talora la destinazione di un missionario in un luogo piuttosto che in un altro, il Consolata Mission Centre  ha , nel corso dell’anno, nella sua calendarizzazione, degli appuntamenti fissi, cui ormai ha abituato i  frequentatori e che, com’è naturale che sia, ripropone con regolarità.

Quello di dicembre, in pratica, è il “dono” dell’Avvento che Bunju fa alla gente che bussa alla porta della Missione.

E la Missione  lì è tanto. In un certo senso è tutto per chi ha sempre molto poco.

Poiché il dialogo interreligioso come anche la promozione della donna sono, insieme ad altre, due  importanti delle priorità del Consolata Mission Centre ecco che qualche giorno fa, il 9 dicembre ,ad esempio,  un  nutrito gruppo di donne (un centinaio), di confessione luterana, come tutti gli anni,  ha trascorso a Bunju una giornata impegnata nella lettura della Bibbia, i cui passi dibatte poi sotto la guida di un sacerdote.

E successivamente, sempre lo stesso gruppo, si ferma a riflettere e  a pregare. Limitandosi a un frugale spuntino. Ma solo al termine.

Molto più impegnativa, al contrario, è l’accoglienza in genere  di adolescenti, ragazzi e ragazze,in genere una ventina, accompagnati da un medico e da una psicologa, che convengono, ogni anno, per un esame diagnostico che possa rivelare se sono affetti o meno dall’aids.

E, il più delle volte, purtroppo essi risultano essere in buona parte sieropositivi al test.

Di una sieropositività,di cui erano ignari, che ovviamente hanno ereditato dai loro genitori ammalati.

E i missionari e le missionarie di Bunju, i “consolatini”, in situazioni del genere,dinanzi a drammi insostenibili come questi, si adoperano e creano, come possono, un clima il più possibile di armoniosa fratellanza, per mitigare la sofferenza che segue la terribile scoperta. Ma  non è facile.

Le  lacrime di questi giovani e il pianto silenzioso di chi, con maggiore consapevolezza, li affianca è straziante preghiera d’intercessione a Maria Consolata, perché muova a pietà il suo Figlio.

E la speranza disperata di tutti è che essa sia accolta.

Infine, in preparazione del Natale, c’è come sempre la formazione per un centinaio di giovani.

Formazione che si articola in un seminario tradizionale e che è un appuntamento che ragazzi e ragazze attendono con molto piacere in quanto non mancano mai momenti di animazione, che li  fanno sentire attori protagonisti della loro cammino di fede tanta è l’immedesimazione in certi momenti “forti” del percorso di crescita.

Concludo porgendo all’attenzione di chi legge che questo “fare missione”, a Bunju come altrove, è per gli uomini e le donne che lo scelgono, i missionari e le missionarie, il percorrere la  storia nel significato più autentico, profondo, coerente e rivoluzionario del cristianesimo da duemila anni e più a questa parte.

E’ un educare permanente, un dare dignità alla persona, un offrire consolazione a chi per pudore spesso neanche la chiede, un risolvere insomma tutti quei “peccata mundi” ,che certi egoismi umani nel tempo hanno prodotto, allettati  con  superficialità da falsi richiami. 

 

           Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

 

         

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