Noi degli Anni Ottanta: passato, presente e futuro
di Giulia Lucconi
Sono nata a metà degli Anni Ottanta. Dopo solo qualche mese successe il disastro nucleare di Chernobyl. L’Italia votò contro il nucleare, ma non sembra che qualcuno oggi se ne ricordi. Tutto quello che so io di quegli anni è il look impressionante: capelli super cotonati, spalline mega ai vestiti, body attillati in tutti i video musicali.
Dei primi 5 o 6 anni conservo nella memoria pochi attimi, molto nitidi. Ricordo quando mi sono rotta il gomito cadendo dal cavallo della giostra, riconosco ancora oggi l’asciugamano in cui mio padre mi ha avvolto prima di portarmi in ospedale e il lenzuolo con una macchia di sangue quando mi hanno inserito il chiodo, per appendermi per tre giorni in un letto d’ospedale. Ricordo quando sono stata male perché all’asilo mi hanno costretta a mangiare lo yogurt ai frutti di bosco e io non lo volevo, lo yogurt ai frutti di bosco, perché non mi piaceva. Ricordo la nonna quando è venuta a prendermi all’uscita da scuola per dirmi che “purtroppo il nonno non ce l’ha fatta, ed è morto”, sento ancora l’intonazione della sua voce e una piccola fitta al cuore: era il 12 gennaio, il compleanno della mia bisnonna. La mia bisnonna, lei che mi leggeva i titoli dei Puffi al pomeriggio o che se la prendeva con Mike Bongiorno gridandogli alla tele che “no, la risposta giusta era l’altra”.
Ricordo l’entusiasmo quando tornavo a casa da scuola, non potevo neanche mangiare, dovevo subito fare i compiti. Poi qualcosa cambia. Per 13 anni devi studiare: è il tuo lavoro. Per i primi 8 anni puoi scegliere ben poco: è tutto obbligatorio. Alla fine delle Medie ti trovi davanti alla tua prima scelta: le Scuole Superiori. Io non ho scelto il liceo: è stato lui che ha scelto me. Sono stati 5 anni impegnativi, in cui però ho imparato essenzialmente a studiare. Quanto ho studiato… Ma che cosa ho studiato? L’ho dimenticato.
L’Università: questa è stata la vera scelta della mia vita. Ho scelto una facoltà che tutti ritengono impossibile già dal nome: Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Quando lo dici le reazioni sono tre. La prima: sentono chimica e dicono “Ahhh”, come se fosse una materia del tutto oscura, come se ti stessi dedicando a qualche pratica satanica. La seconda: sentono qualcosa che assomiglia vagamente a farmacia e allora “farai il farmacista, quindi”, e lì devi spiegare che no, tu il farmaco lo fai, non lo vendi. La terza reazione: sanno di cosa stai parlando e ti chiedono “E poi?”.
La domanda più difficile: e poi? Poi c’è la vita, ti dici. La vita? Ma la vita io l’ho passata a studiare. E’ stato il mio lavoro per un sacco di tempo. Io non so fare altro. Eccola, la vita. Inizi a capire che se vuoi fare qualcosa devi essere qualcuno, o meglio conoscere qualcuno. Perché in Italia è così. Il merito non esiste. Non c’è più entusiasmo, solo delusione. Il ricordo degli anni passati è dolce, il presente incerto e il futuro un’incognita. E le domande che ti vengono dal profondo sono molte, ma una le sovrasta: perché restare?
Resto qui. Questo è il mio “resto qui”. Con tutti i “vado via” che pretende. Un dialogo tra Fazio e Saviano fatto tra me e me.
Resto qui per vedere dove andrà a finire l’Università italiana. La riforma, secondo i ministri, migliorerà le nostre Università. Ma cosa ne sanno veramente i ministri dell’Università di oggi? Hanno mai chiesto agli studenti cosa c’è che non va? Non credo. Resto qui per rispondere a questa domanda. L’Università per merito non esiste e non esisterà con la nuova riforma. I baroni rimarranno dove sono: chi li manda via? Rimarranno anche dopo la pensione, a leggere vecchi lucidi e a raccontarti le teorie dei loro anni. I ricercatori meritevoli e svincolati non avranno un barone a proteggerli, non faranno mai carriera. Quelli non meritevoli hanno già vinto il posto da professore oppure lo vinceranno a breve: il loro barone ha garantito per loro. Gli studenti saranno sempre più vittime di un sistema che promuove la cultura per tutti, che richiede il maggior numero di promossi: non importa il livello. E il livello si abbassa, di anno in anno. Mi dispiace, ma da questa Università vado via.
Resto qui per votare. Il voto è diritto e dovere del cittadino. Non dobbiamo mai dimenticare che c’è chi ha pagato a caro prezzo questa stupenda possibilità. Perché voto? Per dovere e per rispetto. Perché sono cittadina italiana e per mio nonno, uno degli ultimi partigiani. Per chi voto? Per il meno peggio. Vado via perché i politici non amano più il Paese ma i riflettori. Un politico non fa più politica, ormai: fa la star televisiva. E chi urla di più vince. Resto qui perché spero, un giorno, che la classe politica attuale sia completamente rimossa, che al potere ci sia qualcuno che ami veramente il nostro Paese.
Vado via per poter scegliere di non vivere attaccata a una macchina. Per poter scegliere di smettere quando mi accorgo che è solo accanimento terapeutico. Vado via perché in uno Stato laico la Chiesa non deve occuparsi di politica e di scienza ma solo di fede. Resto qui per convincere la gente che la parola “staminali” non è sinonimo di sacrificio di un feto.
Resto qui perché l’Italia è il mio Paese. Perché è il Paese di Ciampi e Pertini, Coppi e Bartali, Mina e Battisti, Falcone e Borsellino, Welby ed Englaro. Resto qui per combattere al fianco di chi sogna un futuro migliore. Un’Italia migliore.
Buonanotte all’Italia.