I film sono spesso una scuola di vita, ma se non traiamo quasi mai insegnamento neanche dalle nostre esperienze personali, figuriamoci se possiamo imparare qualcosa da un film.
Chevet in francese significa più o meno comodino. Le livre de chevet si tiene sul comodino per sfogliarlo, rileggerlo, accarezzarlo. Come i libri i film de chevet si amano, si guardano, si sfogliano, si accarezzano, si portano sempre con sé. I film de chevet sono grandi classici, capolavori assoluti, piccoli film dimenticati, opere minori dimenticate, film recenti che non hanno avuto il successo che meritavano … film che consigliamo di vedere e rivedere.
Dall’amore ai tradimenti, dai cartoni animati all’horror, dai viaggi alla famiglia, dai drammi storici ai porno …
il ricchissimo archivio dei film de chevet dell’Undici
La descrizione del corpo insegnante che Woody Allen fa nel suo “Io e Annie” è da manuale tanto da essere entrata nella memoria collettiva
Più di prima ci saranno ordine e disciplina, e chi non vuole restare qui … vada in collina (vada in collina)
“Full Metal Jacket” di Stanley Kubrick, Gran Bretagna. 1987.
Con Matthew Modine, Adam Baldwin, Vincent D’Onofrio, Kevyn Howard, John Terry.
Genere: guerra, formazione, riflessione.
Consigliato: a chi piacciono i film sulla guerra, i film complessi, i film duri.
Sconsigliato a chi non vuole più sentire parlare di Viet Nam, di sergenti e di fottuti Charlie
“Se voi signorine finirete questo corso e se sopravviverete all’addestramento… sarete un’arma! Sarete dispensatori di morte, pregherete per combattere! Ma fino a quel giorno siete uno sputo, la più bassa forma di vita che ci sia nel globo! Non siete neanche fottuti esseri umani, sarete solo pezzi informi di materia organica anfibia comunemente detta “merda”! Dato che sono un duro non mi aspetto di piacervi, ma più mi odierete, più imparerete. Io sono un duro, però sono giusto: qui non si fanno distinzioni razziali, qui si rispetta gentaglia come negri, ebrei, italiani o messicani! Qui vige l’eguaglianza: non conta un cazzo nessuno! I miei ordini sono di scremare tutti quelli che non hanno le palle necessarie per servire nel mio beneamato corpo! Capito bene, luridissimi vermi?! ”
La preparazione massacrante serve per imparare che “amole lungo lungo” porta malattie veneree
Se “Apocalypse Now” è il “Cuore di tenebra” di tutte le guerre e di tutto il cinema, in Full Metal Jacket il cuore di tenebra sta tutto nella prima parte quella in cui un istruttore militare vuole insegnare a normali ragazzi americani ad essere delle macchine da guerra pensando che con un buon addestramento si possa trasformare una vita normale in una convivenza con la morte. La seconda parte del film sarà lo specchio che ci mostrerà a cosa porta la disumanizzazione dell’uomo e che un maestro di morte non potrà mai essere un maestro di vita, neanche se catapultato nella più disumana delle guerre. Kubkrick ricostruisce il Viet Nam alla periferia di Londra con la sua consueta attenzione maniacale per i dettagli girando un potentissimo film su una guerra senza eroi e senza punti di riferimento a cui aggrapparsi. Come nel miglior Kubrick il film si presta a più livelli di lettura, per cui piacerà a chi si esalta con i marines e chi vuole farsi coinvolgere in riflessioni più profonde sull’uomo e sulla guerra.
Da vedere in branco urlandosi in faccia le battute ottenendo così il risultato di non capire cosa dicono nel film (capito la lezione?)
I maestri della finanzia degli anni ottanta son giunti fino a noi
“Wall Street” (Wall Street) di Oliver Stone, USA, 1987
Con Michael Douglas, Charlie Sheen, Daryl Hannah, Martin Sheen, Terence Stamp, Sean Young, James Spader:
Genere: drammatico, finanziario
Consigliato a chi ama il primo Stone, a chi sogna l’abolizione della proprietà privata
Sconsigliato agli Yuppie e a chi ha amato gli anni ’80, a chi ha perso tutto con i mutui subprime.
“Non sarai tanto ingenuo da credere che viviamo in una democrazia, vero Buddy? È il libero mercato”
Il consulente finanziario rampantino Charlie Sheen (Buddy) sogna di emulare il maestro Gekko (Douglas), lo speculatore per eccellenza, il più grande di tutti. Rischierà di diventare peggio di lui, ma – complici gli affetti familiari – rinsavirà appena in tempo. Stone racconta Wall Street ai tempi in cui grazie al Portfolio di Repubblica e a Yuppie di Luca Barbarossa, anche il bracciante lucano e la casalinga di Treviso scoprono la borsa e miete un successo planetario con uno dei suoi film peggiori. Consacrazione definitiva per un modesto Michael Douglas (Oscar per il migliore attore). Quando 20 anni dopo la nuova bolla finanziaria gli offre il migliore degli assist per il sequel, non si tirerà indietro. Il risultato alla fine sarà migliore, ma il pubblico dimostrerà di considerare l’accoppiata Stone-Douglas un revival dello scorso millennio.
Da vedere a Regina Coeli assieme ar Maddoff dei Parioli
Come si imparano i buoni sentimenti nelle periferie disagiate … da nessun’altra parte
“Diario di un maestro” di Vittorio De Seta, Italia, 1975.
Con Bruno Cirino, Massimo Bonini, Luciano Dal Croce
Genere: finto documentario o, come si dice oggi Docufiction
Consigliato a chi ama il cinema di impegno, a chi considera Cuore il più bel libro di tutti i tempi, ai buoni samaritani, ai vendoliani.
Sconsigliato a chi si è rotto i coglioni del buonismo, ai nannimorettiani (che rischierebbero l’infarto a forza di ridere).
“Signor Preside, non mi sembra adesso il caso di istruire un processo per una cosa simile”
Nella periferia romanazza devastata dai cantieri, con il sole sui tetti dei palazzi in costruzione, un maestro elementare progressista e informale si conquista l’affetto de li pischelletti e il rispetto delle famiglie, ma (guarda un po’) è inviso alle autorità scolastiche ed alla fine viene allontanato. Tutto ampiamente visto e scontato già nel 1972 (la versione originale esce due-tre anni prima che al cinema, come sceneggiato televisivo); noioso, ripetitivo e con poche idee. Il cinema sociale e mockumentary di De Seta ha avuto grandi momenti, ma ‘in questo caso annoia e basta. Poi, visto che se si fa vedere un periferia e se si mettono davanti alla macchina da presa bambini del sottoproletariato è automaticamente grande cinema, questo brutto lavoro è stato segnalato dall’intellighentsjia cinematografica italiana tra i 100 film più rappresentativi del nostro disastrato Paese (http://www.retedeglispettatori.it/index.php?section=i-cento-film).
Da vedere durante un amplesso doggy-style con Mariastella Gelmini
Chi non vorrebbe un maestro come Humphrey Bogart al proprio fianco?
“Provaci ancora, Sam” (Play it again, Sam) di Herbert Ross, USA, 1972.
Con Diane Keaton, Woody Allen, Jerry Lacy, Tony Roberts, Susan Anspach
Genere: Commedia sentimentale, romance psicoanalitico.
Consigliato a chi vedendo gli ultimi film di Woody Allen non riesce a capire perché sia così venerato. A chi si sente sfigato nei rapporti di coppia. A chi ha voglia di autoanalisi. A chi vuole ridere e divertirsi
Sconsigliato a chi non ama la comicità parlata, a chi si sente un superuomo, a chi pensa di non aver niente da imparare, a chi non sopporta la faccia di Woody Allen o la voce di Oreste Lionello.
Noi sappiamo che il tuo posto è con Dick. Sei parte del suo lavoro, gli dai la forza di andare avanti. Se quell’aereo decolla e tu non sarai con lui, te ne pentirai. Magari non oggi, e forse neanche domani, ma presto, e per il resto della tua vita.
Oh Sam, che belle parole!
Sono di Casablanca. Ho aspettato tutta la vita l’occasione di usarle.
“Sai chi non era insicuro? Bogart.
Ma Sam, quella è finzione: tu tendi a una meta troppo alta nella vita.
Ma se cerchi un modello da seguire, chi ti scegli? Il portiere? Bogart è il modello perfetto!”
Woody Allen non è il regista di questo film, ma ne è l’autore avendo scritto un soggetto e una sceneggiatura ritagliate sul suo personaggio di intellettuale insicuro perennemente sotto (auto)analisi. Qui Woody Allen è un critico cinematografico reduce da un traumatico divorzio che ha accentuato le sue insicurezze. Corre in suo soccorso niente poco di meno che il fantasma di Humphrey Bogart (nelle mitica versione Casablanca). In un succedersi incessante di battute e gag verbali, di introspezioni psicologiche e di accoppiamenti più o meno riusciti il film arriva all’indimenticabile finale che tutti noi vorremmo vivere.
Da vedere con la bellissima ragazza di un vostro amico (poi fate voi)
“Hey, teacher leave the kids alone” vale anche se la teacher è Nicole Kidman
“Da morire” (To Die for) di Gus Van Sant, Stati Uniti-Regno Unito, 1995.
Con Nicole Kidman, Joaquin Phoenix, Matt Dillon, Casey Affleck, Illeana Douglas, Alison Folland
Commedia dark;
Consigliato: a meteorologi, dipendenti di network televisivi e fan di Carlo Freccero;
Sconsigliato: a genitori di adolescenti e mariti di bionde meteorologhe
“Non sei nessuno, in America, se non sei in tv.”
Sulla strada di alcuni ingenui adolescenti– Joaquin Phoenix, Casey Affleck e Alison Folland, perduti nella provincia statunitense e affetti da disturbo borderline, o forse solo da tristezza e povertà di prospettive – capita una Nicole Kidman seducente e bella, superficiale e priva di scrupoli, un essere umano crudele e pronto a distruggere chiunque intralci la sua corsa verso la notorietà. Una cattiva maestra. Che insegna il male e manipola le vite altrui, le stravolge e distrugge, pur di avere ciò che vuole. Una commedia nera e grottesca su una donna resa mostruosa dal fatuo sogno della popolarità in tv, girata col cinismo di Gus Van Sant, la sua curiosità per gli adolescenti, da un lato, e per la follia della porta accanto dall’altro.
Da vedere ballando illuminati dai fari di un’auto.
Col lazo+cavallo+pistola John Wayne è il maestro di tutti. Anche con un occhio solo
“Il Grinta” (True Grit) di Henry Hathaway, Stati Uniti, 1969.
Con John Wayne, Glen Campbell, Kim Darby, Robert Duvall
“Sai, quando una donna non sa più cosa dire, la butta sulla dignità”
“Il Grinta” (True Grit) di Joel ed Ethan Coen, Stati Uniti, 2010.
Con Jeff Bridges, Hailee Steinfeld, Josh Brolin, Matt Damon, Barry Pepper
“Se punti un uomo con forza e decisione, non pensa a quanti sono con lui, pensa solo a se stesso…a come salvarsi dalla furia che sta per piombargli addosso…”
Genere: Western, formazione, vendetta, coraggio, bevute;
Consigliato: a sinceri amanti di pistoleri anziani, appostamenti, grandi panorami e battute lapidarie;
Sconsigliato: a damerini e astemi.
Ragazzine, vi fa solo bene seguire dei maestri incazzosi
Fossi una quattordicenne del Vecchio West determinata a vendicare la morte del proprio padre, anch’io come Mattie Ross, mi affiderei soltanto al Marshal Reuben J. Cogburn, un uomo con un solo occhio, un gran fegato e un mucchio di roba da insegnare, forse proprio perché è di quei tipi che non vogliono insegnare niente a nessuno. Marshal Cogburn cattura e uccide per lavoro (ricercati, si intende) e sa farlo molto bene. Mattie lo ingaggia e parte con lui, conscia di “imbarcarsi in una grande avventura”, come lei stessa dice, imparando (suo malgrado) molto su se stessa, sul cuore degli uomini, sul male e sulla perdita. Non stiamo qui a farci sopra tutta una storia melensa sulla supplenza della figura maschile dominante per un’adolescente intelligente che ha perduto il padre: Marshal Cogburn è l’uomo a cui vorremmo affidare i nostri figli adolescenti se fossimo meno ipocriti, un ibrido perfetto tra un capo scout laico e avvinazzato, un terapeuta inconsapevole, un agente e un nonno spericolato. Storia western on the road ed esemplare, di inseguimento e cattura, con molte pallottole e un sacco di morti; la versione di Hathaway è un classico (e pescò un Oscar per John Wayne), ma la versione dei Coen è veramente una meraviglia.
Da vedere dopo avere governato il cavallo.
Ha ragione maestro, il righello sui dorsi della mano non serve a nulla
“A Dangerous Method” di David Cronenberg, Francia, Regno Unito, Canada, Svizzera, Germania, 2011.
Con Michael Fassbender, Viggo Mortensen, Keira Knightley, Vincent Cassel, Sarah Gadon
Drammatico; consigliato a psicotici, adulteri e proprietari di case in Svizzera e Austria; sconsigliato a chi non crede nella psicanalisi, nella Mitteleuropa e nella Sacher
“A volte devi fare qualcosa di imperdonabile per imparare a vivere”
Non si è davvero maestri finché non si ha un discepolo capace, un seguace così meritevole da insidiare il ruolo stesso del maestro. Questo per scrivere una di quelle grosse boiate che sembrano perle di saggezza, e invece sono solo boiate, e basta, ma ci riempi due righe e rimpingui il testo. Anche perché scrivere di questo gran bel film di Cronenberg e dei suoi cattivi maestri, è un’impresa! Cattivi maestri, per antonomasia, gli psicanalisti Sigmund Freud (Viggo Mortensen) e Carl Jung (Michael Fassbender) (e anche Otto Gross!), creatoridi una disciplina controversa e discussa ancora ora, figuriamoci un secolo fa, ai suoi albori; cattivissima la protagonista femminile Sabine Spielrein (Keira Knightley), pazza, colta, intelligente, sessualmente problematica; poi, di pessimo esempio il rapporto che si instaura tra Jung e Sabine, talmente cattivo da incrinare il rapporto tra il Maestro Freud e l’allievo Jung. Cronenberg (mica il due di briscola) affronta i primordi della psicanalisi istituzionalizzata, i burrascosi rapporti tra Sigmund Freud (Viggo Mortensen) e Carl Jung (Michael Fassbender) e la nota vicenda tra Jung e Sabine Spielrein facendone un film che vela e non nasconde sotto la superficie ordinata e nitida i tratti sconvolgenti dell’abisso umano verso il cui precipizio tutti noi camminiamo.
Da vedere con lo psicoterapeuta, però stando nudi, possibilmente sul fondo di una barca.
Piangere nei bagni della scuola è proprio una roba da ragazzini, ma in realtà vorremmo tornare tutti lì
“La scuola” di Daniele Luchetti, Italia, 1995.
Con Silvio Orlando, Anna Galiena, Fabrizio Bentivoglio
Genere: Commedia;
Consigliato a dipendenti statali, genitori di adolescenti, amanti di Bill Frisell che firma la colonna sonora;
Sconsigliato a maturandi, studenti delle superiori negli anni Novanta e amanti di Vasco Rossi (contiene un remix bruttissimo di Senza parole)
“Alla fine gli metto 8, ma vorrei tagliarmi la gola! Astariti è la dimostrazione vivente che la scuola italiana funziona con chi non ne ha bisogno!”
Pigrizia, pregiudizio e dappocaggine; stupidità, grettezza e cattiveria. Ma anche passione, pazienza, dedizione; gentilezza, capacità e comprensione. I professori della scuola di Luchetti incarnano didascalicamente tutti i pregi e i difetti non soltanto del corpo docente italiano, ma dell’intero genere umano. Una vera collezione di pessimi insegnanti, meschini e schifosi, insieme a quelli bravi, generosi, comprensivi, quelli che magari averli incontrati negli anni a ronfare sui patrii banchi! Magari si potesse incrociare un prof che si ricorda che gli hai fatto un bel collegamento tra la pazzia di Amleto e quella di Orlando, uno che a quelli con la mano sempre alzata urla “te la taglio quella mano”. Uno a cui importa che tu non ti faccia troppo male, nella vita, uno a cui piacerebbe che tu avessi tue proprie idee e gusti e opinioni e interessi. Film retorico, ma anche spiritoso e intelligente (nonostante la riduzione di qualche personaggio a macchietta) sul disastro della scuola italiana e le persone di buona o cattiva volontà che si caricano sul groppone le future generazioni.
Da vedere con una banda di bidelli.
La cultura è niente senza la saggezza, figuriamoci il kung fu
“Kung fu Panda” (Kung fu Panda) di Mark Osborne e John Stevenson, USA, 2008.
Genere: Animazione, arti marziali (de menasse), commedia.
Consigliato a chi ama i nuovi cartoni post-Disney (per i piccoli, ma soprattutto per i grandi); a chi ha amato i film di Bruce Lee; a chi ha odiato i film di Bruce Lee.
Sconsigliato a chi non ha il senso de’’umorismo; a chi non coglie le citazioni; a chi ha amato i film di Bruce Lee (che si sentirebbe preso in giro); a chi ha odiato i film di Bruce Lee (per capire che invece il kung fu è una cosa seria).
“Il caso non esiste”
In una Cina medievale abitata da animali antropomorfi, due antichi maestri (una tartaruga e un roditore) insegnano a pochi selezionati eletti la filosofia e la pratica del Kung Fu. In maniera del tutto casuale, un grosso lardoso panda, capace solo di mangiare e di cucinare spaghetti, viene scambiato per “il guerriero dragone”, colui che incarnerà la quintessenza del Kung Fu. Tutto questo proprio quando il precedente campione – colui che pareva destinato a diventare il guerriero dragone, ma che poi si è piegato al lato oscuro della forza – scappa dalla prigione di massima sicurezza in cui era confinato, per consumare la vendetta contro il maestro che non aveva creduto in lui.
Una battuta dietro l’altra, una citazione dietro l’altra, dalle tecniche di combattimento del kung fu agli action movie di Hong Kong, Kung Fu Panda è un capolavoro del moderno cinema di animazione. Educativo senza essere didascalico, ironico fin nei singoli particolari, e con un messaggio universale: l’ingrediente segreto, se esiste, sta dentro di te; nessun maestro potrà insegnartelo.
Da vedere in un ristorante cinese (vestendo un bel kimono bianco)
Se per farti capire hai bisogno delle maniere forti, allora che non hai niente da insegnare
“La prima linea” (La prima linea) di Renato De Maria, Italia, 2009
Con Riccardo Scamarcio , Giovanna Mezzogiorno, Fabrizio Rongione, Duccio Camerini
Genere: drammatico, storico.
Consigliato a chi vuole vederci chiaro nelle miserie italiche
Sconsigliato agli ideologizzati di destra e di sinistra, a chi ha perso la fiducia nel cinema italiano.
“Abbiamo scambiato il crepuscolo per alba”
La storia di Prima Linea raccontata in prima persona e in un lungo flash-back dal suo ideologo e fondatore, Sergio Segio. Dalle origini dell’impegno ‘68no e di Lotta Continua, alla transizione alla lotta armata, dapprima prendendo le distanze dalla violenza delle Brigate Rosse, ma poi attorcigliandosi in una escalation inarrestabile di agguati, rapine ed omicidi. De Maria sceglie due angeli belli e dannati, Riccardo Scamarcio (Sergio Segio) e Giovanna Mezzogiorno (Susanna Roncone, compagna di lotta e di vita), ma tempera il tutto con colori cupi e affidando all’io narrante di Segio un racconto a bassa voce, che traccia i contorni di una consapevole sconfitta, di una parabola presto incomprensibile allo stesso maestro. Film di studiata lentezza, per condurre lo spettatore verso l’ineluttabilità della sconfitta.
Da vedere ricordandosi di dare ogni tanto due giri di manovella al ciclostile
Questa volta i giovani debosciati non dimenticheranno l’ultima lezione della bella professoressa
“Confessions” (Kokuhaku) di Tetsuya Nakashima, Giappone, 2010.
Con Takako Matsu, Yukito Nishii, Kaoru Fujiwara, Masaki Okada, Yoshino Kimura
Genere: thriller drammatico, teen movie angosciante.
Consigliato a chi ama il cinema orientale, a chi vuole vedere un film che faccia riflettere sulla vita, sulla morte, sull’età giovane e spensierata e sulle responsabilità di giovani e adulti.
Sconsigliato a chi vuole farsi grasse risate, a chi cerca un po’ di ottimismo e a chi si aspetta il solito horror giapponese con le ragazzine con capelli davanti alla faccia.
“Ucciderti semplicemente non servirebbe perché disprezzi la tua vita, anziché ammazzarti ho continuato a controllare il tuo sito web in cerca di un’idea migliore, e alla fine l’ho trovata”
In una tipica classe di adolescenti debosciati, un po’ per gioco, un po’ per noia, e soprattutto per dimostrare che esistono, due liceali uccidono la figlia piccola di una loro professoressa. Per dare una lezione ai colpevoli e a tutta la classe la madre straziata farà bere ai ragazzi latte avvelenato da sangue infettato dall’AIDS. O almeno questo è quello che lei racconta all’intera classe attonita. Da lì le esistenze vuote dei ragazzi e degli adulti saranno sconvolte, il nulla verrà in superficie, ma resterà nulla. In un crescendo di ansie, colpi di scena e, come dice il titolo, confessioni emergeranno le (mancante) responsabilità di giovani e adulti in un film che sembra volerci avvertire di avere più riguardi nei confronti delle nostre e delle altre esistenze perché altrimenti, indipendentemente dall’età e dalle motivazioni che siamo costretti ad inventarci, della vita non sappiamo che farcene.
Da vedere con i vecchi compagni di scuola, o almeno a quelli sopravvissuti ai professori, alle madri e a loro stessi
Bonus Track: un maestro al si sopra di tutte le classifiche
Chi di noi non ha in tasca almeno 30 danari scagli la prima pietra
“Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, Italia. 1964.
Con Con Enrique Irazoqui, Margherita Caruso, Susanna Pasolini, Marcello Morante, Mario Socrate
Genere: neorealismo. Religioso, popolare e rivoluzionario. Drammatico (un dramma in sacrificio per noi)
Consigliato: a bigotti, cattolici praticanti, cattolici distanti, atei, agnostici, avventisti del settimo giorno, musulmani, ebrei, induisti, scintoisti, buddisti, adepti di scientology…e a tutti gli altri.
Sconsigliato a chi non guarda film di cui conosce già il finale. A chi è convinto che il Vangelo sia ciò che dice lui. E anche a tutti i radical chic
“Dobbiamo trovare il modo di farlo morire”
Senza bisogno di addentrarsi in questioni religiose possiamo tranquillamente affermare che Gesù Cristo (Betlemme 0, Gerusalemme 33) sia stato il Maestro assoluto, un Maestro i cui insegnamenti sono stati trasmessi in questi 2.000 anni, ma, purtroppo, mai in pieno recepiti. In fondo se ci sono state le crociate, Marcinkus e Paola Binetti non rientrava nelle volontà di Gesù e non è certo colpa sua.
Pasolini parte dal Vangelo secondo Matteo e lì resta facendo un film che riporta letteralmente il racconto di episodi di quel Vangelo per regalarci il più bel film su Gesù mai realizzato. L’ambientazione nei Sassi di Matera, il bianco e nero realista e un cast composto da molti emarginati pasoliniani ci portano un film che tocca corde che non sapevamo più che esistessero e che ci riconcilia con la religione, la nostra cultura e il nostro cinema.
Da vedere insieme al proprio parroco ripetendo più volte: “hai sentito cos’ha detto? capisci cosa vuol dire?”
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