Antonella è arrivata in Burkina Faso mezza giornata prima del colpo di Stato. In queste pagine le sensazioni e gli umori di un’italiana a Ouagadougou, partita per fare ricerca ed ora alle prese con la politica di uno dei paesi più poveri al Mondo.
di Antonella Rizzello
15 settembre, l’aereo atterra in una terra calda. L’immersione nella realtà passa attraverso i rumori: ma qui non c’è tutto questo casino come ci si immagina. Tutti in fila, la prima cosa che ti vien chiesto (prima ancora di questi documenti di tutti i colori, del libretto della febbre gialla e di una dichiarazioni della tua certa ripartenza dopo la permanenza) è di ungerti le mani, uno strofinamento purificatore all’entrata; me ne lavo la mani o entro in un luogo da non sporcare?
Nell’elaborazione di troppe informazioni, consapevole di non poterne comprendere che una minima percentuale, fai una selezione e quello che ne viene fuori è “Ebola”, penso sia una prevenzione.
Una foto della mia bella faccia e poi prima di entrare nel territorio burkinabè inventi il nome di un albergo dove andrai ad alloggiare. Formalità, finzioni reciprocamente riconosciute.
Un italiano mi lascia il suo indirizzo, mi dice che è qui per una fiera di minerali e di andare a trovarlo. Sembra che siamo già amici, come se bastasse lo stesso colore perché io sia interessata a rivederlo, per scoprire tutte le interessantissime informazioni sulla sua azienda bresciana e i suoi rapporti internazionali con il Burkina.
I rumori mi precedono. “Taxii, taxiii…”e poi tun, tun, tun, è la pioggia, che cade sulle tettoie di lamiera e segna il tempo. Su ogni motorino ci sono almeno tre persone e qualche valigia. Il minimo spazio, il massimo dell’efficienza… e capisci che si è imparato tanto dalle formiche che si caricano 10 volte il proprio peso e perseguono nella propria strada.
La notte sembra serena, non fa così caldo, più o meno luglio in Puglia, ma con tutta l’energia di voler scoprire e il caldo si mescola alla curiosità.
Al mattino mi avventuro nel quartiere intorno la casa in cui alloggio. La mia è una casa a due piani, qui non ce ne sono tante. Sono di chi se le può permettere, e chi se le può permettere le fa solo così, se no gli altri non lo sanno. E poi c’è il guardiano, là davanti con bastone e fionda. Non mi fa sentire al sicuro, anzi mi chiedo perché bisogna proteggersi in questa maniera quando ci sono anche le sbarre alle finestre? Attirare l’attenzione con lui davanti alla casa che la notte si chiude in un bozzolo di zanzariere, a volere proteggere all’interno qualcosa di speciale che però non si sa cosa sia. I simboli prendono forme umane e vengono messi lì a mascherare paure inconsce e pregiudizi inestirpabili.
Mi avventuro per le strade; sono tante e sterrate e, per un occhio vergine, molto simili l’una all’altra, solo alzando lo sguardo individui degli elementi distintivi: piloni colorati, “pennacchi religiosi” che interrompono abitazioni un po’ ovunque rossicce e squadrate.
Mi perdo, perché delle donne ricordano il mio nome, spiego loro cosa faccio qui, chiedendomelo anche io, ma senza troppa ansia. E nel ritornare indietro perdo il tracciato. Non passa troppo tempo che qualcuno coglie il mio sguardo decisamente acuto e perlustratore e si offre disponibile a darmi una mano. I punti di riferimento son complessi: riferisco di baracchini, negozietti di vestiti, ma ad ogni angolo ci sono e il mio aiutante se la ride, come se dicessi di voler trovare ad Ostuni una casa vicino a un bar.
Gira e rigira, dopo una chiamata a chi sa dove è casa mia, mi ci riporta, pensando probabilmente che gli italiani oltre a essere un po’ bianchicci, sono anche un po’ stupidi.
Nel pomeriggio decidiamo di uscire nel centro città. E allora pronta, con tutte quelle strane cose che mi rendono estranea oltre che alla gente che mi circonda, anche a me stessa (tasca portatile, borraccia, fotocopia dei documenti, torcia, paranoie), siamo sull’uscio della porta.
Telefono. Colpo di Stato.
Non si esce.
“Cosa succede?”, “Usciamo, andiamo a vedere, insorgiamo”. No, si sta a casa, è pericoloso per noi e per chi lotta. Bisogna aspettare.
Proverò a spiegare, nella maniera in cui posso averla capita io, attraverso le grate di una casa in cui ci abitano italiani, con delle chiacchiere strappate a gente che non ha preso parte alle rivolte, a persone che non capisci da che parte stanno e non capisci neanche bene quali siano le parti. Proverò a spiegare cosa ho colto io da internet, dagli sguardi, dalle risa e da una incredula leggerezza che non penso significhi disinteresse.
Il colpo di Stato è ad opera di Gilbert Diendere, capo della Guardia Presidenziale, braccio sinistro di Thomas Sankara (considerato un fondamentale personaggio rivoluzionario per tutta l’Africa Occidentale), il quale negli anni ’80 aveva osato sfidare persino le ingerenze francesi ed aveva stabilito un governo socialista, ma che poi era stato ucciso, proprio dai suoi più fidati alleati, tra cui Compaorè, che invece era il suo braccio destro.
Blaise Compaorè è stato presidente del Burkina per 27 anni; finché non si è riuscito a metterlo fuori gioco impedendogli di ricandidarsi, grazie alle sommosse popolari che nel mese di ottobre dello scorso anno avevano portato alla costituzione di un governo di transizione ed alla indizione delle elezioni per l’11 ottobre 2015.
Quindi colpo di Stato, rapimento di Michael Kafando, presidente ad interim del Burkina e di Isaac Zida, suo premier.
Dunque, ad una mezza giornata dal mio arrivo in Africa, io ero partita con ogni desiderio di scoperta e qui scoppia un colpo di Stato, a cui seguono rivolte e barricate per le strade.
Comincio a chiedermi se tutta la mia curiosità sulle primavere arabe, quella sulla sorcellerie, non si siano unite in un unico grande ballo e non abbiano fatto sì che il mio destino fosse quello di arrivar in Africa per vedermi intorno una rivoluzione. Non saprei se parlare di rivoluzione. Forse no, non si sa che forma abbia, ma la gente non accetta questo nuovo “potere” insediatosi.
Qualsiasi nome abbia, per ora, non posso andare a vederla con i miei occhi. Per le strade dicono “il fait chaud”, fa caldo e non è sicuro stare in giro per strada e attirare l’attenzione.
Mi chiedo come sia possibile che duemila persone, tanti sono i membri della Guardia Presidenziale, che non godono di nessun tipo di riconoscimento da parte del popolo, decidano di prendere in mano una nazione e imporre il proprio governo.
E soprattutto ti chiedi come sia possibile che riescano a farlo. La signora di fianco casa dice: “sono gli unici ad avere le armi, neanche l’esercito di Stato ce le ha, e non puoi farci niente, se hanno le armi, hanno il potere”. E poi si danno un nome importante: “Consiglio Nazionale per la Democrazia”, che depista la comprensione, ma loro le elezioni non le vogliono o almeno non per ora. I quesiti sono infiniti. Quali sono gli obiettivi di questo Consiglio, cosa vogliono ottenere?
Per ora le trattative sono in atto: Diendere, dopo essersi attirato le disapprovazioni ufficiali di tutto il mondo politico e la diffida dalla Commissione Africana, continua ad essere lì.
Siamo ora al 20 settembre, quarto giorno di coprifuoco, Zida e Kafando sono stati liberati e le trattative sono in atto. Le richieste di Diendere sono elezioni inclusive, in cui si possano votare anche i candidati esclusi precedentemente poiché troppo legati al governo dittatoriale del presidente Compaoré.
Dunque si attende, la fine della stagione delle piogge e la fine di questo dispiego di violenza, quando il ticchettio sulle lamiere si confonde con gli spari in lontananza e non si trovano le ragioni.