Vincenzo Maddaloni
Sul tetto della grande moschea è cresciuta l’erba, e il suo interno è diventato una stalla per le vacche. Accade ad Agdam, una cittadina che quando era azera aveva sessantamila abitanti e oggi ne conta trecentocinquanta per lo più pastori e contadini. Sicché Agdam è diventata una città fantasma, sicuramente tra le maggiori al mondo. Non a causa di un’epidemia, ma per scelta della nazione armena che decise di raderla al suolo, dopo averla conquistata il 24 luglio del 1993, per prevenire la sua riconquista da parte dell’Azerbaigian. Da allora essa fa parte del territorio della repubblica del Nagorno Karabakh, nella regione di Askeran, a una sessantina di chilometri dalla capitale Stepanakert.
Ufficialmente è dal 1992, che i musulmani azeri e i cristiani armeni si stanno combattendo per il governo del Nagorno-Karabakh, una regione del Caucaso meridionale che si trova all’interno dell’Azerbaigian ma che si è autoproclamata indipendente circa vent’anni fa, abitata prevalentemente dagli armeni, teatro di conflitti da quando si sciolse la federazione transcaucasica nata dopo il crollo dello zarismo. L’Armenia la reclama come suo legittimo territorio, l’Azerbaigian rifiuta ogni concessione in merito. Tutti i fili di una possibile soluzione politica sono ingarbugliati da una vera e propria guerra scoppiata tra le due repubbliche e combattuta da due eserciti forti di granate, mitraglie, elicotteri e di quanto erano riusciti a strappare dagli arsenali dell’Urss appena dissolta. In quattro anni lo scontro era indietreggiato nelle campagne, si era spostato nei paesi, era dilagato nei villaggi con una furia primitiva e selvaggia che aveva causato 30.000 morti (soprattutto azeri) e un milione di sfollati (quattrocentomila armeni un tempo residenti nell’Azerbaigian e cinquecentomila azeri residenti in Armenia e Nagorno-Karabakh), molti dei quali ancora oggi vivono nei campi profughi perché non sono potuti tornare alle loro case.
Eppure risale al 5 maggio del 1994 la firma, a Bishkek in Kirghizistan, del cessate-il-fuoco che non è stato mai rispettato. Tuttavia il Nagorno-Karabakh, protetto dall’Armenia, ha ottenuto l’indipendenza de facto, anche se questa non è ancora riconosciuta dalla comunità internazionale. Così i due Paesi sono ancora tecnicamente in guerra. Infatti nei giorni scorsi i rapporti tra Armenia e Azerbaigian sono diventati nuovamente molto tesi e ci sono state alcune sparatorie tra militari. Vi sarebbero morti otto soldati (cinque azeri e tre armeni), mentre almeno una decina di altri militari sarebbero rimasti feriti.
Ricordo che quando vi giunsi nel 1992, un anno prima che la conquistassero gli armeni, Agdam era già ricolma di macerie, e il cuore della cittadina era diventato un cimitero a modo suo monumentale, con tutte quelle tombe ricoperte di terra color ocra e con le foto dei morti impallidite e sgranate dall’ ingrandimento, fasciate nel nailon per resistere alla pioggia. Il vecchio Ahmed, il custode del cimitero, che conosceva la storia di tutti quei morti, ogni volta la ripeteva trasformandola in leggenda: «Ecco la fossa della bella Leyla, uccisa dalla fucilata di un cecchino mentre portava da mangiare al fidanzato al fronte»; «Fermatevi davanti al destino tragico dei coniugi schiacciati dal crollo della loro casa colpita da una granata»; «Silenzio, qui dove il muro dei fiori è più alto, sopra la foto infantile di Reza che è morto a dodici anni con un colpo che gli ha trapassato la testa».
Il furore popolare aveva trasformato quei morti in martiri. Dal cimitero di Agdam, come da tutti quelli dei paesini percossi dalla guerra, il sentimento religioso del martirio divenuto politico si allargava e tuttora si allarga fino a raggiungere la capitale Baku per dominarla. E’ l’idea tragica dello yolum, della morte cantata dai mullah – che pervade ogni cosa e le vaga «attorno come una cammella cieca» – quella che riscrive la storia, immobilizza l’attualità e condiziona la politica. Perché oggi come ieri il Paese vive la sconfitta militare come l’ingiustizia suprema e calcolata, subita per volontà di Mosca, la quale, non potendo tollerare per questioni geopolitiche ed economiche un Azerbaigian troppo “occidentale”, sostiene gli armeni cristiani, nemici dei musulmani azeri da sempre. Sicché i cinque morti degli scontri di poche settimane fa (al nord della linea di confine tra i due paesi, nei pressi del villaggio di Ashagy Askipara, un’ex striscia di terra azera ora controllata dall’Armenia) sono il nuovo anello della lunga catena dei martiri. Sono essi ad essere evocati ogniqualvolta c’è da rispondere ad un’accusa. Accadde dopo i pogrom azeri contro gli armeni; dopo l’eccidio di Sumgait (26 febbraio 1988) sul Mar Caspio, durante il quale furono uccisi a colpi di coltello o scaraventati dalle finestre più di cento armeni. Accadde dopo il blocco delle frontiere agli armeni colpiti dal terremoto. «Per svuotare l’Armenia di qualsiasi forma di vita», spiegavano i volantini del Fronte popolare. Così ogni conflitto con gli armeni era ed è tuttora un episodio isolato da ogni altro contesto, diventa sindrome di separatezza e di martirio capace di unire il risentimento con l’orgoglio nazionale, il riformismo politico e l’antimodernismo islamico, l’ossessione della persecuzione e l’esaltazione della tragedia.
Ai ministri del culto resta il compito di alimentare il dolore e coltivarlo, per raccoglierne il frutto politico, che si traduce per esempio nel sostegno incondizionato al Consiglio Turco, dopo che esso ha cooptato due organizzazioni in precedenza autonome: l’Accademia Turca, fondata nel 1992 in Kazakistan, e la sua Assemblea Parlamentare fondata nel 1998 in Azerbaigian. Così facendo, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan e Turchia si sono legati in un patto che si fonda sulla fede e sul petrolio. Non a caso il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha compiuto il mese scorso un viaggio di “diplomazia economica” in Pakistan e Kazakistan, firmando importanti accordi commerciali con entrambi i Paesi senza perdere di vista la nazione azera. Il viaggio di Erdogan nelle regioni del “Grande Gioco” era apparentemente finalizzato alla partecipazione al Quinto Forum Economico di Astana nella capitale kazaka, con il quale il presidente Nursultan Nazarbaev sta cercando di creare una sorta di Davos centroasiatico. In effetti, il tour di Erdogan rientrava nel quadro del riorientamento della politica estera turca, che, accantonata la dottrina dello “zero problemi con i vicini”, si sta avviando verso una nuova “direzione eurasiatica”, nella quale l’Islam (sunnita e sciita) costituirà il collante.
Uno scrittore “laico” come Razul Anar me l’aveva a suo modo profetizzata vent’anni fa, la crescita islamica. Nel salone colmo di stucchi dell’Associazione degli Scrittori, egli mi ricordava che loro, gli azeri, per primi avevano condannato gli eccidi di Sumgait, ma «nessuna voce internazionale s’era levata per condannare la strage di Hodgiali, dove duemila azeri erano stati passati per le armi dagli armeni. Il che vuoI dire», mi spiegava, «che per giudicare si usano due pesi e due misure, per cui noi siamo vittime di ambedue le guerre: di quella “fredda” e di quella “calda” che si combatte sui campi di battaglia intorno al Nagorno-Karabakh. L’unica cosa certa è che per ora i fondamentalisti islamici sono una minoranza, ma questa invasione armena può regalare loro moltissimi nuovi fedeli».
Ricordo che sul cippo all’entrata del cimitero di Agdam, dove si deponevano i cadaveri per l’ultima abluzione, i mullah itineranti spiegavano che Munkar e Nakir (i due angeli inquisitori che interrogano i morti al fine di certificarne o meno la retta fede islamica), non sarebbero intervenuti, perché per i caduti di quella guerra non ci sarebbe stato il «tormento della tomba», fino al Giudizio Finale che apre ai peccatori le porte infernali, coi suoi tormenti e le sue sofferenze. Infatti Allah, Signore dei mondi, aveva già salvato i morti della guerra del Karabakh, poiché essi «hanno dato la vita per la Patria, si sono conquistati la gloria, dunque sono santi», recitavano i mullah.
Ma non pensate agli azeri come ad un popolo avviluppato in un’arretratezza secolare, incupito dalla tragedia della guerra, ma offeso, questo sì, a tal punto da spingersi nelle braccia dei mullah con la certezza di vedere in un giorno prossimo riscattata la linea del confine. E’ lo stesso paesaggio dalle parti del Karabakh che sembra confermare quest’attesa. Infatti, il giro piatto dell’orizzonte con il profilo lontano delle montagne del Caucaso, che si alzano improvvise tra i barbagli di giallo alle pendici e i riflessi bianchi di neve in lontananza disegnano un confine, almeno in senso psicologico. Poiché lì, in un punto ove le montagne altissime si avvicinano, Alessandro Magno avrebbe costruito la barriera per salvare questa parte di mondo dalle orde di Gog e Magog, le quali «non poterono scalar la muraglia, non poterono aprirvi una breccia», come recita la diciottesima sura del sacro Corano. Fu di qua delle montagne a nord di Agdam, nella città di Bardà che Alessandro Magno incontrò la regina Nushaba e la sua corte di amazzoni, com’è raccontato nella Khamsé, I cinque tesori, il poema di Nezami, il massimo poeta azerbaigiano. Intorno all’anno Mille, Nezami ripercorse la leggenda alessandrina adornandola di «gemme di Persia e d’Arabia», come gli aveva ordinato il suo augusto committente,il sultano Ahsitan della più lunga dinastia islamica, quella degli Shirvanshah, che durò dall’861 al 1538. Si tenga a mente poi che Nezami, considerato il più grande poeta epico-romanzesco della letteratura persiana, è apprezzato e condiviso da Iran, Tajikistan, Afghanistan e Azerbaijan. Così meglio si capisce di che forza è il collante che unisce queste genti.
Quando nell’Ottocento da quelle gole scesero i russi dilagando verso la Persia, il popolo subito li paragonò alle orde di Gog e Magog e lo sgomento fu così grande che si è tramandato di generazione in generazione fino ai nostri giorni, perché la dominazione russa è stata – a sentir loro – la più grande disgrazia che gli potesse accadere. L’economia agricola fu stravolta dalla monocoltura del cotone imposta nei settant’anni di potere moscovita e gli azeri furono trattati come una colonia della Russia, la quale aveva russificato perfino i nomi di famiglia (gli Hussein e i Reza diventarono Gusseinov e Rezaev e lo sono tuttora).
Naturalmente i soldati oggi sulla tuta mimetica hanno un distintivo che riproduce i colori dello stendardo della Repubblica azerbaigiana democratica, la quale durò dal 1918 al 1920, la prima in tutto l’Oriente, dove l’azzurro ricorda la libertà, il rosso con la mezzaluna l’appartenenza alla razza turca, il verde il colore dell’Islam. Va pure detto che questo Stato musulmano, ricco di petrolio e fornitore di energia all’Europa, oltre che rotta di transito per le truppe Usa, è governato da vent’anni dalla stessa famiglia: Gejdar Aliev, presidente azero dal 1993 e in precedenza numero uno del partito comunista (così come tutti i presidenti caucasici e centroasiatici arrivati al potere dopo il crollo dell’Urss), nel 2003 ha affidato l’incarico al figlio Ilham, suggellando un passaggio di consegne che non ha precedenti nello spazio postsovietico. Così in Azerbaigian si continua ad amministrare con altrettanta disinvoltura, ricorrendo a misure di facciata per sedare il malcontento popolare e alla repressione sistematica per tacitare ogni forma di dissenso, come è avvenuto qualche mese fa appena s’è avuto il sentore di una rivoluzione detta dei gelsomini, dentro i confini di casa.
Tuttavia sono i racconti su quel che accade lungo la frontiera col Karabakh, assieme a quelli dei profughi e le fotografie dei morti negli scontri che si succedono di anno in anno, a scuotere la gente, soprattutto quella delle campagne che rappresenta la maggioranza della popolazione. Così rimbalzano come d’incanto gli scenari delle case distrutte, dei giardini devastati, delle moschee in rovina, di pezzi di storie private che riemergono dal fondale del furore collettivo sempre pronto a scatenarsi ogniqualvolta un fatto si collega al Nagorno-Karabakh, “usurpato” dall’Armenia cristiana.
Vent’anni fa sulla linea del fronte, siccome era da poco collassata l’Urss e con essa anche l’Armata Rossa, non c’era un esercito regolare, ma una sorta di guardia nazionale composta da volontari, molti dei quali giovanissimi, con indosso la tuta mimetica senza né gradi né mostrine, ma soltanto una coccarda con i colori della bandiera azera. Parlavano poco e si guardavano in giro con aria attonita, tipica di quello straniamento delle reclute che pensano sempre al ritorno a casa mentre aspettano che trascorra il giorno. A quel tempo era difficile immaginare come sarebbe cresciuta quella generazione di combattenti-volontari che a vent’anni aveva già vissuto gli orrori della guerra, parlava di ferite inferte spesso “per puro spregio” dagli armeni sui corpi delle loro donne e dei loro compagni uccisi.
Eppure, se la frontiera con la città fantasma di Agdam, la sua moschea diventata stalla e le sue storie, sembra lontana e poco influente, basta una sola considerazione ad avvicinarla di colpo. L’Azerbaigian gioca un ruolo chiave per l’Unione Europea, la quale non vuole dipendere per le forniture energetiche soltanto dalla Russia. Si tenga a mente che tutti i progetti lungo il cosiddetto “Corridoio Sud”, a cominciare dal gasdotto Turchia–Grecia–Italia, hanno come protagonista Baku. Sicché se il presidente turco Erdogan fa più riferimenti ad Allah nelle sue dichiarazioni pubbliche di quanto non ne abbia mai fatti in passato, sicuramente pensa anche all’Azerbaigian, dove si parla l’azero che è una lingua turca e dove i turchi sono di casa fin dall’anno Mille. Ve li condusse Mahmud, il più importante tra i sultani della città afghana di Ghazna, il quale con le sue conquiste trasformò il regno in un impero che comprendeva gli attuali Afghanistan, Pakistan, India nordoccidentale e naturalmente l’Azerbaigian. Per dire, quanto la storia conti anche da queste parti.
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