Marchionne è riuscito a fare, in appena due anni, ciò che l’attuale presidente del consiglio non è riuscito a fare in quindici: eliminare la Cgil dal tavolo delle trattative. La parola d’ordine di questa operazione (quasi) riuscita è “sgretolare la base” del primo sindacato italiano. Infatti gli anni di scontro frontale fra il “quadrato rosso” e le istituzioni conservative del governo, hanno visto quasi sempre vincente il primo, mentre le seconde si leccavano le ferite inferte dai milioni di lavoratori scesi in piazza – ad esempio – il 23 marzo 2002. Un cambio di strategia era d’obbligo. Ecco quindi la formula Marchionne, appoggiata ovviamente da governo e Confindustria (sotto ricatto: la Fiat ha minacciato di uscirne se Federmeccanica non avesse recesso il contratto del 2008) e sostenuta meno ovviamente anche da Cisl e Uil, che da anni attendevano l’occasione per spingere la Cgil nel baratro. Un’alleanza forte, difficile da contrastare, soprattutto se il maggior partito d’opposizione è diventato il minor motivo di cruccio per la maggioranza: la debolezza del centrosinistra e spesso la collusione del Pd con la “cricca” hanno anestetizzato gran parte della reattività anche della Cgil, che si è a sua volta ammalata di quel vizio assurdo della sinistra italiana cioè la lotta interna, la parcellizzazione mozionaria fino alla frammentazione dell’atomo. Condizioni che, insieme alla crisi economica, hanno rappresentato la palla al balzo per Marchionne per cancellare la Cgil e quindi il ruolo del Contratto nazionale di lavoro.
Questi gli obiettivi coi quali l’ad di Fiat ha presentato il referendum a Pomigliano d’Arco, chiedendo ai lavoratori se approvassero un investimento di 700 milioni di euro nello stabilimento campano. Ma il risultato che ne è uscito è stato forse il peggiore immaginabile per Marchionne: il 62% di sì dimostra che la maggioranza dei lavoratori vuole l’investimento e vuole che la Fiat resti a Pomigliano; ma il 38% di no evidenzia che una larga parte dei dipendenti ha compreso la vera domanda nascosta dietro il posticcio quesito referendario, ovvero: “Caro operaio, preferisci continuare a lavorare perdendo tutti i tuoi diritti o rimanere per strada senza sapere come sfamare i tuoi figli?”. Questo 38% è rimasto lucido ed ora rimarrà in Fiat con un’ostile consapevolezza rispetto alle mire dell’azienda: fatto poco bello per Fiat. Marchionne ha cercato il plebiscito ma è tornato a casa con la coda fra le gambe. Ora l’asse Fiat-Marcegaglia-Cisl&Uil dovrà prendere tempo. Il plebiscito avrebbe consentito una spalmatura immediata del modello Pomigliano su scala nazionale, mentre oggi si dovrà procedere più lentamente. Forse per Marchionne non sarà un dramma ma lui è abituato a farle bene e in fretta le cose ed oggi i suoi obbiettivi sono da raggiungere obbligatoriamente in fretta, se no rischiano addirittura di saltare. Non tutte le epoche sono disposte ad accettare il dogma secondo il quale “i diritti sono una variabile dipendente dal mercato”; Marchionne questo lo sa e vuole accelerare il suo disegno, che relega il sindacato a semplice strumento per ammortizzare la conflittualità all’interno della fabbrica del futuro. “Basta con il sindacato rivendicativo e sociale – afferma Marchionne – Anch’esso deve lavorare, al fianco della proprietà, per la competitività dell’azienda”. Nella pratica, l’idea del dirigente chietino è realizzare delle neo-corporazioni che si facciano concorrenza reciproca. In questo modo l’operaio dovrebbe sottostare ai sacrifici imposti dal mercato, rinunciando a diritti e retribuzione nel nome della “causa comune” della competizione. I sindacati intanto dovranno cambiare identità, lasciando cadere il principio della solidarietà fra i lavoratori e svolgendo solo semplici funzioni di caporalato interno: praticamente i delegati potranno stare comodi ad aspettare le direttive dei vertici aziendali e garantire il rispetto dell’accordo che, partendo da Pomigliano, potrebbe estendersi all’intero Paese. Molto semplici i punti dell’accordo firmato da Cisl e Uil: basta con le pause, le otto ore si fanno filate; basta con le 11 ore di sosta per l’operaio fra un turno e l’altro, riduciamole; no per tutti al riconoscimento dei primi 3 giorni di malattia, se il periodo registra un picco di assenteismo nello stabilimento; no allo sciopero nei giorni comandati; incremento del ritmo di produzione e soprattutto la clausola che stabilisce provvedimenti disciplinari e licenziamenti facili in caso di mancato rispetto dell’accordo. In pratica Marchionne sta tentando di riscrivere le regole del lavoro dipendente, riportandole a tempi pre-sindacali. In questo senso è curioso sentire come l’ad di Fiat bolli di “passatismo nostalgico” le posizioni mantenute dalla Fiom, quando l’unico nostalgico sembra essere lui, nostalgico del lavoro di stampo ottocentesco. Se il modello Pomigliano dovesse estendersi, gli operai potrebbero ritrovarsi da soli di fronte ai vertici dell’azienda, senza la mediazione del sindacato; pertanto ogni dipendente avrebbe in mano un potere di contrattazione ridicolo e la fissazione di eventuali diritti diventerebbe una scelta autonoma della proprietà aziendale.
Però a Pomigliano qualcuno ha detto no (e la Fiom non ha il 38% degli iscritti a Pomigliano). Ha detto no chi non ha sopportato l’idea di entrare in competizione con i colleghi degli altri stabilimenti; ha detto no chi si è rifiutato di appoggiare una guerra fra poveri che combattono per un pugno di noccioline; ha detto no chi intende creare un ponte di solidarietà non solo con i lavoratori italiani, ma anche con quelli polacchi, serbi, cinesi, con i lavoratori di tutto il mondo; chi crede che l’uguaglianza globale non corrisponda alla perdita di diritti per gli operai occidentali, ma alla conquista di diritti da parte di tutti gli altri. Da questo 38% non può non nascere una speranza. Ma bisogna agire, subito e senza divisioni. Le cause dei metalmeccanici possono diventare davvero le cause degli studenti, degli operatori culturali, dei braccianti sottopagati, dei migranti schiavizzati, le cause di ogni cittadino stremato dall’essere complice di un meccanismo che asservisce e toglie diritti al lavoro. Agire e subito. A livello contrattuale, pretendendo in ogni sede la riconferma del contratto 2008; a livello legale, verificando se il recesso di Federmeccanica è nei crismi della legalità (anche un minimo conoscitore della storia dei diritti e del lavoro sa che il termine “recesso” non è mai stato storicamente contemplato in questo genere di trattative); a livello di mobilitazione, rispondendo uniti all’appuntamento a Roma del 16 ottobre, in cui si griderà a gran voce che i diritti conquistati non siamo disposti a lasciarli per strada. Bisogna prepararsi bene, perché possiamo contare solo sulle nostre forze, non su quelle di una Cgil da riqualificare né tanto meno su quelle di un centrosinistra ambiguo e diroccato o che, peggio, sottilmente avvalla le posizioni del governo perché del governo è diventato dipendente. E dovremo fare attenzione, dovranno fare attenzione soprattutto gli operai, perché il pericolo non è tanto in un imprenditore, Marchionne o chi per lui, che dal suo punto di vista sta lavorando egregiamente, ma piuttosto da quei signori rassicuranti che invece di fare il proprio mestiere, cioè difendere i lavoratori, si piegano alle più becere logiche del profitto aziendale, evidentemente per una convenienza economica o per una convenienza di prospettiva: diventare sindacalisti-caporali, senza obblighi di contrattazione e senza la Cgil a mettersi di traverso. Questi signori sono molto più condannabili di Marchionne ed è comprensibile (ma non giustificabile) la rabbia con la quale sono zittiti nelle occasioni pubbliche. Ricordiamoci però che non sarà la violenza la strada per non perdere i diritti; ricordiamoci che così gli si permette di sfoderare il vittimismo, mentre è con il confronto democratico che vanno atterrati questi signori. La violenza è un errore nel merito e nel metodo, invece il confronto apre le porte della consapevolezza collettiva. Non è un caso infatti che in molte fabbriche la Fim stia disertando le assemblee nelle quali sono presenti anche i rappresentati della Fiom. È con questa presa di coscienza che dobbiamo mobilitarci.
Se il modello di Marchionne dovesse davvero vincere, anche le più pessimistiche previsioni sul destino dei lavoratori dipendenti potrebbero essere superate in peggio. I proletari di tutto il mondo non si sono mai uniti, gli industriali invece sì e adesso preparano l’offensiva più grande, quella che solo in un periodo di crisi si può attuare, con un governo reazionario disposto a confondere il paese ed un’Europa non ancora immune dal virus della xenofobia. Tre o quattro anni fa questo scenario non sarebbe mai stato ipotizzabile, ma la storia si è velocizzata, segue il ritmo dell’innovazione tecnologica ed il risultato tutto italiano è che in soli due anni sono state rifondate le basi del lavoro e sono mutate del tutto le regole di mercato. Cambiare questo sistema che avanza è difficilissimo, ma forse è una causa per quale vale la pena combattere.
(Mirko Roglia)