“Tornassi indietro, non lascerei mai la panchina del basket a 51 anni“. Così Dan Peterson raccontava al Corriere della Sera cinque anni fa, in un’intervista che celebrava i suoi settant’anni. Il “nano ghiacciato” di Evanston (cittadina da cui proviene anche Mason Rocca) ha atteso 23 anni per tornare sulla sua decisione, e ricomincia esattamente da dove aveva terminato: sulla panchina dell’Olimpia Milano. L’ufficialità è arrivata in mattinata in seguito al comunicato di ieri sera sull’esonero di Piero Bucchi: “Piero Bucchi non è più l’allenatore della squadra“, recita il laconico comunicato apparso sul sito dell’Olimpia. Premesso che assai probabilmente il suo sarà un ruolo più da supervisore di Valli e Fioretti, già assistenti di Bucchi (il primo ha avuto esperienze anche ad alto livello come head coach), la notizia non può non suscitare interesse, sia per i risultati sportivi di Peterson sia per la sua successiva carriera di uomo di comunicazione. “Non l’avrei mai fatto per una squadra diversa dall’Olimpia“, ha spiegato il coach suscitando, presumibilmente, qualche lacrima negli occhi dei tifosi biancorossi, sia quelli che ricordano i successi degli Ottanta sia quelli che, troppo piccoli per viverli, hanno sentito raccontare di quell’Olimpia invincibile che veniva descritta come “la ventisettesima squadra dell’NBA” (all’epoca erano solo 26 le franchigie pro).
Ci si mette pure il calendario a sottolineare l’eccezionalità dell’evento: il nuovo esordio è previsto per mercoledì contro Caserta, ovverosia la stessa squadra affrontata da Dan Peterson prima del suo ritiro. Era il 25 aprile del 1987 e l’Olimpia, battendo l’allora Mobilgirgi Caserta di Oscar, Gentile ed Esposito conquistava la terza vittoria nella serie playoff di finale e, con essa, il suo ventitreesimo scudetto.
È improbabile che il solo cambio dell’allenatore possa avere esiti taumaturgici e riportare l’Olimpia sul tetto del campionato, tuttavia l’esito dei due derby (una brutta vittoria con Varese e una sconfitta peggiore con Cantù ) non poteva essere compatibile con un’ulteriore permanenza di Piero Bucchi alla guida di Milano. Il presidente Proli (al quale peraltro andrebbe chiesto il perché dell’incomprensibile estensione contrattuale concessa all’ormai ex allenatore nell’estate del 2009 che spostava il termine del rapporto con Bucchi dal giugno 2010 al giugno 2011) aveva annunciato prima di Natale che il trittico di partite festive avrebbe dato indicazioni ma, come s’è visto, non è stato necessario completare il ciclo di partite.Il tecnico bolognese lascia così l’Olimpia senza troppi rimpianti: 131 partite ufficiali (94 in campionato, 1 in Coppa Italia, 36 in Eurolega) con un bilancio di 69 vittorie (55 in campionato e 14 in Eurolega) e 62 sconfitte, senza praticamente riuscire a mostrare un gioco efficace (anzi, per molti s’è visto solo un gioco offensivo, dove con “offensivo” non si fa certo riferimento all’attacco). Non si possono dimenticare due grandi imprese dell’Eurolega 2008-09, con l’epico trionfo del 3 dicembre 2008 sul CSKA Mosca campione d’Europa e, poche settimane più tardi, la vittoria sull’Olympiacos, ma il senno di poi impone di considerarli episodi estemporanei. Aldilà delle cifre (che comunque condannano il lavoro di Bucchi: in casa Olimpia hanno fatto peggio di lui solo allenatori che hanno lavorato in condizioni molto più difficili rispetto all’attuale gestione Armani), a gettare molte ombre sull’operato dell’ex coach sono le prestazioni di troppi giocatori che, passati in biancorosso, non sono riusciti a esprimere le doti mostrate altrove. Caricato della responsabilità di gestire il mercato a partire dalla seconda stagione, Bucchi si è anche mostrato incapace di costruire una squadra adatta alle sue esigenze. Si pensi per esempio al cambio sistematico che, dai playoff della scorsa stagione, è diventato la cifra dell’organizzazione (…) difensiva milanese: per attuarlo efficacemente occorrono esterni fisici e lunghi atletici, definizioni che a fatica si adattano a Finley e Pecherov, per fare due nomi.
L’esperienza di Bucchi in biancorosso è stata negativa anche dal punto di vista della comunicazione, con interviste sempre improntate all’analisi “psicologica” delle partite - il mantra dell’”intensità” - e all’autoassoluzione, con sconfitte spesso giustificate dagli infortuni, dal rientro dagli infortuni (che toglierebbero equilibrio), dal budget (che però non spiegherebbe le sconfitte con squadre più “povere”), dal caso. Se a qualcuno è venuta in mente la celebre scena di John Belushi in Blues Brothers (le cavallette!), sappia che non è l’unico.